ASCOLTA L’ARTICOLO QUI
Non è -purtroppo- una novità che i toni della comunicazione sui giornali e in televisione, ma anche nelle relazioni interpersonali e sui social media, stanno salendo al punto di sopraffare lo stesso contenuto della comunicazione.
Sembra quasi che l’unico modo per far prevalere la propria idea sia gridarla più forte, ma alzare il livello del volume significa quasi sempre che non si è in grado di alzare il livello dell’analisi, la qualità dell’approfondimento, l’articolazione delle ragioni e allora -come fanno i bulli- si sposta la discussione sul piano muscolare, quello del volume alto, quello dello slogan facile ripetuto all’infinito sordo ad ogni obiezione.
La contrapposizione compulsiva (cioè la sistematica banalizzazione dell’idea opposta come principale ragione a sostegno della propria) ha sostituito propositività motivata e non si tratta solo di un artificio retorico: è il sintomo della povertà degli argomenti, dell’incapacità di collegare le affermazioni, di cogliere i rapporti causali (sono più facili quelli casuali!); insomma è la vittoria della superficialità sulla profondità. Non è un caso che sempre più spesso -nelle trattative politiche- il ricatto finisce per prevalere sul merito.
Il volume alto, la ripetitività ossessiva e la contrapposizione compulsiva sono i tre sintomi della povertà comunicativa. Questi sintomi appaiono tanto più preoccupanti quando si discute -e si decide!- di gestione dei flussi migratori (ignorando ogni accordo europeo), di ulteriore indebitamento per sostenere fantasiose promesse elettorali (il ponte sullo stretto, la flat tax, ecc.), di disinvolte modifiche costituzionali tutt’altro che superficiali (federalismo fiscale, presidenzialismo, ecc.).
La conseguenza più grave di questa patologia della comunicazione è una progressiva divaricazione tra dibattito politico e contenuti reali, che rende difficile distinguere tra problemi veri e finte emergenze, tra slogan velleitari e proposte percorribili, tra conflitti effettivi e contrasti strumentali.
L’unico rimedio possibile è imparare a “scremare” le notizie, a distinguere la birra dalla schiuma, informandoci meglio senza lasciarci impressionare dal volume alto, dall’assertività ostentata, dai caratteri cubitali, dai superlativi più che assoluti, dai “mai più”, dagli “irricevibili”, dai “non accettiamo lezioni da nessuno”.
Sappiamo che la situazione non è delle migliori: la guerra condizionerà ancora a lungo lo sviluppo economico e le opportunità di lavoro, dovremo probabilmente rinunciare a qualcosa (dai gradi di temperatura in casa alla facilità di viaggiare) e l’impoverimento di molti esigerà uno sforzo economico pubblico che non potrà essere sempre aggiuntivo ma dovrà presto essere sostitutivo di altri impieghi.
Le difficoltà sono reali, dobbiamo esigere una serietà altrettanto reale da chi governa: diffidiamo dai miracoli a buon mercato e dai toni trionfalistici e -soprattutto- cerchiamo di ridimensionare i toni del dibattito. Se riusciamo ad abbassare i toni forse riusciremo a capirci e a lavorare su interventi ragionevoli e sostenibili, se non ci riusciremo la conflittualità sterile finirà per assorbire anche le energie che sarebbero invece meglio impiegate per superare le difficoltà.