Non è ancora stato dimenticato il dramma delle morti sospette di almeno diciotto militari di ritorno dalla missione nei Balcani nel 2001 (di cui più di otto italiani), e ora l?inizio della nuova missione, in Iraq, desta nuove e legittime preoccupazioni, soprattutto perché deve essere fatta ancora chiarezza sui materiali usati per la fabbricazione delle armi usate nel conflitto che ha portato alla fine del regime di Saddam Hussein.
Già spiazzata dalla crisi diplomatica con gli Stati Uniti, i paesi europei devono gestire una situazione certamente non facile per assicurare la tutela della salute dei propri soldati, in particolar modo quelli che in Iraq saranno assegnati ad una zona di competenza da un Comando formalmente alleato, di cui magari non si fidano troppo. Sulle armi il Pentagono minimizza, Londra ha un atteggiamento di noncuranza, solo Bruxelles pare voler dar voce all?inquietudine che sale.
Sul banco degli imputati l?aereo statunitense A-10, l?unico che può sparare i proiettili all?uranio impoverito; nel 2001 faceva scalo nelle basi NATO in Italia prima di lanciarsi nelle sue missioni con il compito di distruggere i carri armati serbi, con le munizioni con una punta resa durissima proprio dall?uranio; ma il proiettile, poco radioattivo di per sé, diventa pericoloso dopo l?esplosione quando rilascia uranio nell?atmosfera. Respirare l?emissione di un solo proiettile vuol dire superare da trecento a tremila volte (fonte: ITN) il limite della radioattività tollerabile. Di questi proiettili ne sono stati sparati 10.000 sulla Bosnia, 30.000 in Kossovo, non si sa ancora in Iraq (si parla di 30.000 tonnellate). Cifre da far mandare in fibrillazione i contatori Geiger. La NATO è stata accusata di reticenze nel concedere l?accesso alle informazioni più delicate, e da parte di molti si arriva a chiedere ai governi europei di rivedere le procedure tra partner dell?Alleanza. In particolare perché anche nella comunità scientifica aumentano i dubbi a fronte di coloro che continuano a ritenere l?uranio non responsabile delle leucemie aumentano quelli che invece lo ritengono molto pericoloso.
Cominciò tutto nei Balcani: in Italia finora sono più di otto le morti sospette in quella missione e una cinquantina quelle su cui indagano la procura militare di Roma e quella civile di Bologna. In Spagna, sono state disposte analisi mediche per tutti i 32 mila soldati che hanno operato dal ?95 nei Balcani. In Portogallo, nel 2002, dopo la morte sospetta per un tumore di un paracadutista in forza alla Kfor, sono stati chiesti accertamenti medici per i 900 soldati impiegati, e subito sono stati trovati altri soldati con leucemia in fase iniziale. Il Belgio (5 morti sospette) ha chiesto l?intervento del Consiglio dei ministri della UE per indagare su questi fatti. L?Olanda conta due casi del genere, la Francia tre, l?Inghilterra due. Per ora.
Secondo Mark Leaty, portavoce della NATO, “l’opinione generale, e stiamo parlando di un parere medico indipendente, è che il rischio radiazioni costituito dai proiettili all’uranio sia molto limitato. Tanto che si dovrebbe tenere in mano un pezzo d’uranio per 250 ore prima di raggiungere i margini di rischio”. Duecentocinquanta ore sono dieci giorni. Una missione dura mesi e mesi. Il Pentagono ribadisce però pure la legalità dell’uso dell’uranio impoverito e, pur promettendo risposte puntuali, insiste nel sostenere che i casi di tumore non possono attribuirsi alle munizioni radioattive.
Ma diciotto casi di morti sospette tra i militari europei meritano attenzione e risposte certe; e nessuno crede più a una semplice coincidenza, e sui civili al momento non esistono nemmeno dati.
I 18 casi di morti non chiarite tra i militari europei chiedono attenzione e risposte