Caro Direttore,
sdraiato sul letto, mio figlio mi dorme a fianco, stringe tra le mani il suo cagnolino. Siamo appena tornati dal teatro di Villa Borghese, dove un gruppo di ragazzi africani recitava uno splendido “Pinocchio nero”. Lui ha seguito lo spettacolo riconoscendo i personaggi, chiedendo della balena e di Geppetto, della scuola, che anche lui, come Pinocchio, dovrà iniziare tra pochi giorni. Prima elementare.
Anche lui camminava come Pinocchio. I lunghi tutori di metallo, dalla coscia al piede, snodati al ginocchio, gli davano quell’andatura caratteristica delle marionette. Oggi lui stesso ride nel vedere Pinocchio che cammina così. È nato con una grave malformazione che si chiama spina bifida. Si è appena addormentato. Io leggo ‘Repubblica’ di giovedì 2 settembre e mi fermo all’articolo in cui si intervista il medico che in Olanda pratica l’eutanasia ai bambini. Leggo: “Ha mai visto un bambino con spina bifida? Ecco, questo è uno di quelli che abbiamo ucciso”.
Poso il giornale, mi fermo lì, a pagina 13. Prendo il libro sul comodino, inizio a leggere mentre lui continua a dormire. Il libro mi prende, leggo trenta pagine, ma non ce la faccio, dentro di me cresce rabbia e sgomento. E penso: ma come? Avete mai visto un bambino con spina bifida? Io sì. È mio figlio. Ed è bellissimo, vivace e intelligente. Ha due occhi neri neri. Dorme tenerissimo con la sua schiena appoggiata alla mia. La mamma e la sorellina sono fuori e ha quindi il permesso di stare nel lettone. È un bimbo come tutti gli altri. Va a scuola, ha degli amici che lo cercano per giocare assieme.
Quel medico pensa che bambini così non meritino di vivere. Io penso il contrario. Lo penso perché è mio figlio. E quando lo incontrammo per la prima volta in quella stanza di ospedale, dove da troppi mesi aspettava una mamma e un papà adottivi, le gambe ingessate e gli occhioni neri che mi scrutavano dritti e silenziosi, non ho pensato di cercare un medico che gli desse la dolce morte. Ho pensato solo che da quel giorno sarebbe diventato nostro figlio. E il medico che abbiamo incontrato, i tanti medici, gli hanno regalato la “dolce vita”. L’ortopedico pian piano gli ha raddrizzato i piedi. Il neurochirurgo gli ha inserito una piccola valvola per drenare dalla testa l’acqua in eccesso, evitando che diventasse idrocefalo e l’urologo gli ha evitato che potesse avere gravi infezioni per la difficoltà di urinare. Sono questi i medici di cui ha avuto bisogno mio figlio. E non di chi gli regalasse la morte.
E ora vi prego, non immaginate mio figlio come un bimbo infelice che vive in ospedale. Perché lui oggi vive esattamente come i suoi coetanei. Con le sue nuove scarpe ortopediche corre salta e gioca. È felice, come sua sorella, che di handicap non ne ha.
Mi spaventa l’eutanasia, l’aborto terapeutico, l’eugenetica. A chi fanno paura i diversi? Chi soffre davvero, i sani o gli handicappati? Siamo davvero sicuri che dare loro la morte è fare la loro felicità? O vogliamo solo una società di sani? Io credo che si debba lavorare per costruire città a misura di tutti, a partire dai bisogni di chi ha più difficoltà. Ospedali in cui ci siano medici e infermieri capaci di guardare negli occhi i loro pazienti, di capire che hanno di fronte una persona, che potrebbe essere il loro figlio… e io a mio figlio non voglio regalare la morte.
Per fortuna viviamo in uno Stato in cui secondo la Corte di Cassazione (sentenza numero 14.488 dell’agosto 2004) “sostenere che il concepito abbia un diritto a non nascere, sia pure in determinate situazioni di malformazione, significa affermare l’esistenza di un principio di eugenesi o di eutanasia prenatale, che è in contrasto con i principi di solidarietà dell’articolo 2 della Costituzione”.
E quando mio figlio avrà l’età per farlo, scriverà lui stesso cosa ne pensa e vi dirà se avrebbe preferito nascere in Olanda.
di Luigi Vittorio Berliri