Ci dobbiamo abituare all’idea di Mirandola come cantiere aperto. Almeno per un po’ e non sarà facile. Nemmeno troppo bello. Con questo pensiero mi sono addormentata e con questa parola in testa svegliata la mattina dopo. Cantiere. Nel mio paese e nel mio Paese. Sì perché Mirandola è la metafora di un’Italia a terra. Nel cantiere si vedono solo i movimenti tecnici, con difficoltà si scorge il progetto d’insieme e il cartello “lavori in corso” ci indica qualcosa che sta per essere cambiato, ma pare non arrivare mai al suo compimento. Così Mirandola. Così l’Italia.

Il cantiere pone di fronte a due alternative.

Possiamo costruire tutto come era prima, per dire a noi stessi che anche al disastro più terribile si può rimediare. E fare diventare il paese come una cartolina degli anni ottanta, dove la piazza era piena di gente, a passeggiare spensierati sul listone o riposare sulle panchine lungo i viali. Quando stavamo meglio insomma, qualche decennio prima del terremoto. Tutto come prima, per dare a Mirandola una “parvenza” di autenticità che rassicura tanto.

Oppure scegliere la via dell’autenticità, che è diversa e richiede tanto coraggio. Il coraggio di scegliere e lasciare sul posto l’inutile. Conservare con intelligenza solo ciò che è rimasto come traccia della nostra identità e compiere uno sforzo di innovazione, di creazione, per rimettere in piedi ciò che è a terra e ci interessa oggi salvare. Antisismico e compatibile con l’ambiente, con un’idea di città migliore di quella distrutta, come vuole il nostro tempo, il terzo millennio. Con buon gusto, che non è moda ma bellezza, l’essenza di una comunità giusta e aperta.

Il cantiere è terra di nessuno, ma proprio perché anacronistico ha un suo fascino. Non pretende di mostrare l’evidenza ma mette in scena tutta l’incertezza del momento: al tempo stesso il passato non ancora perduto e l’imminenza di ciò che sta per venire. Il cantiere ci invita a sentire il tempo presente con umiltà, senza pretendere di volerlo fermare né prefigurarne l’esito. Contiene la promessa di qualcosa di nuovo, in divenire e inatteso.

Chi ha vissuto l’esperienza del terremoto ha imparato una lezione importante. Che può succedere di vedere tutto a terra. Ogni cosa caduta confusamente senza un criterio preciso. Senza un prima o un dopo. L’importante mescolato all’inutile. Tutto ha la stessa dignità di “cosa a terra” ma poche cose valgono la pena di essere raccolte. Si tratta di un momento straordinariamente (e tragicamente) unico e creativo.

In Italia la pesante crisi economica è stato il terremoto. Ci ha fatto prendere coscienza di una realtà che non c’era. I ristoranti pieni, le feste, l’opulenza e l’ingordigia di pochi (troppi). Monti è stato uno schiaffo in faccia di verità. Tanto duro quanto necessario. Dopo questo governo possiamo cercare nostalgicamente di rivolgere il nostro sguardo alla cartolina felice degli anni ottanta. Come il gioco dell’oca, per poi tornare daccapo. Oppure raccogliere la sfida del cantiere: mettersi in sintonia con il proprio tempo avendo il coraggio di tenere solo il fondamentale dal passato. Il resto va creato. Vita nuova.