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Gli accadimenti che ci coinvolgono e le decisioni che dobbiamo prendere –da quelle spicciole quotidiane a quelle più serie e determinanti- ci costringono a darci una chiave di lettura, ad adottare una sorta di grammatica che ci permetta di dare un nome, capire e giudicare quello che succede: dobbiamo insomma decidere come “raccontarcela” per orientarci e scegliere da che parte stare. Le modalità di raccontarcela e le grammatiche che utilizziamo sono molte -ciascuno poi le personalizza con creatività!- tuttavia mi sembra si possano identificare due linee prevalenti che caratterizzano le narrazioni più diffuse: quella più “liberale” e quella più “sociale”. 

La prima pone l’accento sul primato dell’individuo come elemento base della società, sull’iniziativa privata e il libero mercato come insostituibili strumenti di produzione della ricchezza e del benessere materiale dei cittadini e sul ruolo dello stato focalizzato sull’amministrazione della giustizia, la tutela del buon funzionamento del mercato, l’amministrazione dei beni pubblici, la gestione dei rapporti internazionali, la regolazione della fiscalità senza pregiudicare il funzionamento dei mercati. La seconda pone invece l’accento sul benessere della comunità prioritario rispetto a quello del singolo, sulla ridistribuzione delle risorse attraverso una fiscalità realmente progressiva e su una tutela dei deboli (in tutti i sensi) che non sia residuale ma mirata alla massima inclusività possibile.

La contrapposizione tra le due impostazioni -che riecheggia la polarità d’altri tempi tra “padroni” e “proletari”- è oggi soprattutto una questione di accenti: nessuna delle due visioni è così miope da negare totalmente le ragioni dell’altra o la necessità di un attivo ruolo “terzo” di garanzia. Anche il più acceso sostenitore della linea liberale ammette la necessità di una distribuzione della ricchezza -sotto forma di welfare alimentato dalla fiscalità- a tutela dei più deboli; così come anche il più acceso sostenitore della linea sociale capisce che nessun welfare sarebbe sostenibile senza la produzione della ricchezza e la creazione di posti di lavoro generati dalla imprenditorialità e dal mercato. Le due impostazioni esprimono dunque soprattutto due contrapposte preoccupazioni, ma sono in realtà più complementari di quanto non sembri perché entrambe convergono sulla necessità venga esercitato con equilibrio il ruolo di garanzia tra le due sponde, salvaguardando le esigenze di entrambe. Il vero rischio -infatti- è che una delle due priorità si imponga in modo assoluto e faccia saltare l’equilibrio scivolando verso due scenari entrambi insostenibili: una società a due velocità senza alcuna tensione di inclusività o una società che pretende velleitariamente inclusività senza fare i conti con le risorse disponibili. 

Perché è possibile che scenari così palesemente ingiusti e irragionevoli possano concretamente realizzarsi come -purtroppo- nella storia degli uomini è più volte accaduto? E’ possibile perché -benché inconfessata- è costantemente in agguato dentro ognuno di noi una componente egoistica che non sempre riusciamo a rendere ininfluente. Visto che manca solo una settimana a Natale, vorrei augurare a tutti proprio questo: cinque minuti di privatissima sincerità durante i quali dismettiamo gli abiti della parzialità e le etichette che tanto amiamo, per dare spazio a quella parte di noi, quella che capisce le ragioni dell’altro, che non è interamente sovrapponibile a quelle etichette e a quegli abiti ed è -probabilmente- la parte migliore. Buon Natale.