Oggi è un mese esatto che sono in questa stanza di ospedale. Ora mi è più chiara la differenza tra tempo percepito e tempo reale: mi sembra sia passata una vita. In questo mese ho fatto un viaggio che mi ha portato al confine, là dove l’attesa è l’unica dimensione possibile, per poi ricondurmi gradualmente indietro verso terre note ma che non posso evitare di guardare adesso con occhi diversi.

I medici mi trattano con cura, come scrupolosi meccanici che non riconsegnano la macchina al proprietario prima di essere sicuri che tutto funzioni ed averlo istruito a dovere sulle precauzioni da osservare. Prendo nota di tutto e spero presto di tornare in strada ad incrociare i passanti, a casa, al lavoro, in città, a preoccuparmi delle cose di ogni giorno, mettendo a frutto quanto ho imparato in questo corso accelerato che la vita mi ha offerto.

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Per evitare di trovarmi impreparato sulla evoluzione delle cose, ho dato un’occhiata al 54° rapporto annuale Censis che è stato presentato venerdì scorso. Una miniera di informazioni arricchite dalle consuete “Considerazioni generali” che sintetizzano i tratti più rilevanti dell’indagine sull’Italia stravolta dalla pandemia.

Ho appreso che “il 73,4% degli italiani indica nella paura dell’ignoto e nell’ansia conseguente il sentimento prevalente in famiglia”, che “l’attesa si è trasformata in disorientamento e il contagio della paura rischia di mutare in rabbia”.

No, decisamente non è un clima sereno e costruttivo.

La rabbia, anche quando generata da ragioni oggettive, non è mai una buona consigliera: può funzionare da propellente per una reazione di breve durata, ma difficilmente riesce a disegnare e porre in atto soluzioni efficaci.

Se “l’85.8 denuncia l’aumento di ineguaglianze e ingiustizie, in particolare fra garantiti e no e il 38,5% è pronto a rinunciare ai propri diritti civili per un maggiore benessere economico, introducendo limiti al diritto di sciopero, alla libertà di opinione, di organizzarsi, di iscriversi a sindacati e associazioni”, allora sarà dura tornare alla “normalità”, non basterà che il virus diventi inoffensivo o che un vaccino ci protegga: bisognerà riappropriarci del gusto di stare insieme e soprattutto della capacità di fidarci l’uno dell’altro. Non vorrei che ciò a cui abbiamo dovuto rinunciare per necessità, finisca per non interessarci più fino a preferire le rispettive solitudini per leccarci meglio le ferite.

In uno dei passaggi più dolorosi il rapporto evidenzia l’esistenza di “un rimosso in cui pulsano risentimenti antichi e recentissimi di diversa origine, intensità, cause. Non sorprende, quindi, che persino una misura assolutamente indicibile per la società italiana come la pena di morte torni nella sfera del praticabile: quasi la metà degli italiani (il 43,7%) è favorevole alla sua introduzione nel nostro ordinamento.” E’ il trionfo della paura e del rancore vissuti come valori, della vendetta come strumento risolutivo, della caccia al colpevole come ragione di vita.

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Mi chiedo spesso, in questi giorni di riflessione forzata, come saremo dopo questa pandemia e la lettura del rapporto Censis non mi ha propriamente incoraggiato.

Nei momenti di difficoltà le persone tirano fuori il peggio o il meglio di sé? Ci sono indizi a favore dell’una e dell’altra prospettiva. La certezza del “ne usciremo migliori” si è incrinata mano a mano che -sui muri- si scolorivano le scritte “andrà tutto bene”, ma anche la convinzione che ne usciremo regrediti all’età della pietra ha le sue crepe e smentite.

Io sono convinto che non c’è nulla di “fatale”: ne possiamo uscire migliori o peggiori, dipende da come decidiamo di vivere questa esperienza e -conseguentemente- da quali atteggiamenti e sentimenti coviamo dentro di noi. Se coviamo rabbia, rancore e individualismo ne usciremo peggiori, se -al contrario- alimentiamo attesa costruttiva, speranza e attenzione a chi è più in difficoltà, ne usciremo migliori. Vale per noi come persone e per noi come società.

Il tempo non è sospeso in attesa della magìa che risolverà tutto o del DPCM che porrà fine alla partita. Il nostro tempo è ora e la responsabilità dei nostri atteggiamenti e sentimenti è solo nostra. Non è un destino: ne usciremo come decideremo di uscirne.