Aiutato dal (giusto) giorno di festa – e dalla pioggia – ho seguito con interesse le varie celebrazioni di questo terzo cinquantennio dell’Italia unita, nel contesto di un mondo agitato e confuso dalle turbolenze dell’Africa, dall’immane tragedia Giapponese, dal terrore atomico, dalla perdurante crisi economica del mondo occidentale, dalle pendenti minacce alla pace ed alla tolleranza.
Come è proprio di questo strano Paese, si è trattato di celebrazioni difformi; celebrazioni confuse nei toni (dal pop pacchiano dei vari Pippi Baudi, alla retorica insincera di politici bolsi, alla solenne messa di santa Maria degli Angeli, ai bei discorsi di Napolitano alle Camere e a Torino, all’austero Nabucco di Muti), celebrazioni qua e là accese da polemiche meschine, ma anche celebrazioni ingenuamente partecipate e, spesso, sinceramente volenterose nello sforzo di cementare una coesione (la strategia della concordia, come l’ha chiamata Massimo Franco) che forse non è morta ma che fatica sempre più a manifestarsi.
Ho provato anch’io, con me stesso, come per una personalissima celebrazione, a rievocare il senso del cammino percorso dal Paese nell’ultimo di questi tre cinquantenni, quello che ho integralmente vissuto, da adolescente e da giovane, da “uomo fatto” (come si dice dalle mie parti per dire di un uomo maturo), da anziano, ormai nonno, un po’ disgustato e, ancora di più, preoccupato. Anche la mia celebrazione mi è risultata confusa; mi sono tornati alla mente lampi di storia patria e di costume nazionale difformi e contraddittori, alcuni, più indietro nel tempo, inclinanti al conforto, altri, più recenti, allo sfiduciato abbandono: il “miracolo economico”, l’Autostrada del Sole, la commozione degli italiani per il saluto del Papa alla Luna, gli angeli del fango dell’alluvione di Firenze del 1966, la marcia dei quarantamila, il referendum sulla scala mobile, la dura rincorsa all’euro; ma anche: le oscure vicende del Sifar, Antelope Cobbler, le dimissioni di un presidente della Repubblica macinato da una incontrollata campagna di stampa, l’inflazione e le svalutazioni, lo stragismo, il terrorismo ed il rapimento di Aldo Moro, il travolgimento di una classe politica, l’uscita dal Raphael del potente Presidente del Consiglio, il bipolarismo delle pompose banalità, le cerimonie sul Po, il Drive-in della politica, e così via fino alle vergognose vicende recenti di costosi ruffiani e di beffarde, giovani prostitute.
La mia privata celebrazione delle memorie mi ha ridato l’immagine perplessa del Paese che abbiamo vissuto e che viviamo; non mi ha aiutato però ad immaginare quello che vivremo nel quadro drammatico degli anni a venire, fra gli sballottamenti e gli scossoni che il mondo minaccia con forza nuova. L’Italia è invecchiata e ha perso molto di quella gioiosa forza propulsiva che ne aveva costituito il “miracolo” del secondo dopoguerra fino a buona parte degli anni ’60: eppure – devo dire, quasi sorprendentemente – ha saputo celebrare con dignità, con poche volgari eccezioni, il suo 150° anniversario dell’Unità. Ma ha davanti a sé un periodo difficilissimo nel quale, non è difficile temerlo, si spegneranno presto i buoni sentimenti messi in campo attorno al tricolore ed all’Inno di Mameli. I problemi che ci portiamo dietro (criminalità organizzata, debito pubblico, gap infrastrutturale, impoverimento culturale, profonde spaccature socio-politiche, rumorose discordie faziose, etc.) sono già un fardello pesante da portare su spalle incurvate dal tempo ; e le sfide che stanno dietro l’angolo non sono meno insidiose: la crisi libica dagli effetti ancora imprevedibili per noi, il nuovo emozionismo che ci farà sragionare sulla politica energetica, le sgovernate tensioni sulla giustizia, l’economia terribilmente stanca, le tensioni sui profughi.
E allora? Festa inutile?
Non credo.
Per quanto volatili siano le nostre emozioni, per quanto scettici siamo sempre stati ed ancora di più diventati, per quanto aridi si siano fatti i nostri spiriti, tuttavia un piccolo seme di riflessioni è stato gettato e – per qualche giorno – avrà anche attecchito.
Non è poco, anche se è lungi, ben lungi, dal bastare. Abbiamo davanti una crisi internazionale a poche miglia dalla nostra costa, in un’area dove abbiamo creduto di esercitare un’influenza. Il mondo ha reagito con inattesa ( e singolare) fermezza e noi ci siamo rapidamente accodati, con modalità forse poco dignitose ma apparentemente efficaci, senza, forse, una accurata valutazione dello scenario ma con una rapida giravolta che ci ha portato in pochi giorni dalla memoria di indecorosi baciamano e di surreali “incoraggiamenti” sulle riforme di Gheddafi ad atteggiamenti bellicosi senza molti precedenti nella storia repubblicana. All’interno abbiamo davanti un problema di riforma della giustizia che è cosa seria ed urgente, tale da meritare da parte di tutti un atteggiamento serio, propositivo e fattivo. Abbiamo un’economia fragile e stanca da rinvigorire. Abbiamo alle viste una tornata referendaria da affrontare, comunque, con serietà, intelligenza e responsabilità, per quanto screditato (ed inadatto a decisioni non emotive) ci possa apparire lo strumento referendario. Abbiamo, soprattutto, attorno a noi un mondo interessato da urgenti dinamiche demografiche, sociali e politiche che richiedono uno sforzo di comprensione di grande portata che deve essere preservato da volgari semplificazioni e da slogan elettoralistici.
Non possiamo permetterci di affrontare tutto ciò con lo spirito di accesa fazione che sta distruggendo il Paese e la sua compagine sociologica. La prova di forza contro il Governo è fallita ed occorre – da parte dell’opposizione – prendere atto che ci sono molte probabilità che la legislatura non si concluda tanto presto. Non è accettabile spendere ulteriori mesi in discordie violente ed in polemiche sterili. I conti si facciano, sul piano politico ( e dello stile di governo), a tempo debito, con chiarezza e sicuramente senza sconti: oggi si torni, da una parte, a governare effettivamente il Paese ed i suoi veri (e gravi) problemi e, dall’altra, a svolgere con intelligenza il ruolo dell’opposizione, senza isteriche preclusioni e sterili delegittimazioni.
Adesso basta, basta veramente! Sono in gioco il presente ed il futuro del Paese e dei suoi figli più giovani, come poche altre volte è accaduto nella storia repubblicana. Se ci siamo commossi ascoltando le gravi note del coro del Nabucco durante le celebrazioni per il 150° anniversario dell’unità d’Italia, non credo che possa bastare al nostro senso di responsabilità piangere tutti insieme il lamento “o mia patria sì bella e perduta”.