1° Classificato
ROMA UN AMORE ETERNO

Roma… Una sola e semplice parola da niente per dire tante cose. Roma… Due sillabe precise per
scandire perfettamente l’eternità apparente, tangibile a chiunque. Mi considero un uomo fortunato
per aver avuto l’opportunità di conoscerti. Città meravigliosa… Meravigliosa è la tua storia…
Meravigliosi i tuoi monumenti, le tue strade… Meraviglioso il tuo cielo… Roma! Covo ancora per te
un amore devastante, insolito e perpetuo…
Il mio amore per te viene da lontano. Avevo dieci anni quando un sogno stravagante e assurdo
attraversò la mia mente per la prima volta. Era il sogno di visitarti. Magari per un giorno soltanto.
Ero innamorato della tua storia, della tua eternità. E come tutti i sogni fanciulleschi, anche il mio
sembrava illusorio, lontano, persino inafferrabile. Ma poi, un giorno che avrebbe potuto essere
uguali ad altri, mi trovai seduto in un Caffé chiamato Berardo, all’Aeroporto Leonardo Da Vinci.
Erano passati diciotto anni dagli ultimi residui del mio sogno fanciullesco. Il destino, come lui sa
fare, aveva lavorato giorno e notte, a mia insaputa per realizzare quel mio impossibile sogno.
Già, ti ho sognato e desiderato da quando ero bambino. Un sogno folle e senza senso. Eppure.
eccomi qua a gustare il profumo delle tue stagioni oramai da sedici anni… Sedici anni passati a
viverti come se fossi mia solamente, a goderti pienamente giorno dopo giorno senza stancarmi mai
di te. Il tempo passato insieme a te è stato bello, anzi bellissimo. Non ho sentito il peso degli anni
che passavano via veloci verso gli orizzonti di un futuro sempre più incerto. Hai dato il nome alla
mia Vita e al mio destino. Mi hai visto diventare uomo tra le tue braccia. Ora quando viaggio nel
villaggio del mondo, mi manchi così tanto che non riesco a lasciarti per più di una settimana.
Persino quando torno nella mia città natale, mi sento diverso, quasi straniero. e il tuo nome letto su
un giornale rievoca le sensazioni che mi hai regalato sin dal primo giorno che ti ho incontrato. Qui
con te ho trovato me stesso… Quello che ora sono, colui che fa le cose che faccio.
I primi giorni con te furono bellissimi… Mi regalasti una vita che non brillava di sole lacrime ma
sveli filamenti d’amore intrecciati in romantiche geometrie di corpi abbandonati all’amore. Mi
regalasti una vita senza più ombre taglienti nella notte, colma delle tue carezze e meraviglie, per un
cuore stanco di soffrire e di cercare la pace e la libertà. Mi regalasti un momento che non conosceva
bufere, dolce come la melodia dei sogni sul pentagramma dell’ anima. Mi regalasti un momento di
voli infiniti, di amore cullato tra onde di seta, lontano dall’odio razziale che aveva modellato la mia
anima. E come qualcosa di prezioso sulle labbra. allora assaporavo il tuo nome con gusto, mentre il
tuo cielo di momenti immaginati sull’orlo dell’impossibile, mi regalava la tua dolcezza di carezze
vellutate. E camminare sulle tue strade era come camminare dentro la mia stessa pelle, libero come
il vento, felice come il mare che lambisce la terra in un abbraccio di due amanti eterni.
Per mesi ti mettesti a raccontarmi di te, mentre con il tuo sguardo accarezzavi tutti i miei sogni e le
mie speranze. Lasciavi scorrere la tua voce come l’acqua fresca d’un ruscello sul mio udito. E
ascoltarti era bello. Mi parlavi della vita. come solo tu sai fare tramite i tuoi musei, le tue chiese e le
tue rovine, perché ogni frammento di pietra per te è storia… Mentre mi raccontavi la tua storia mi
guidavi dentro gli abissi di passioni mai sognate, di desideri mai immaginati. Mi presentavi le albe
perdute di una umanità frettolosa e distratta, e volevi che io ritrovassi la sua passione. M’incantava
questa tua melodia che sbocciava al gemito d’un fulmine. che mi ha travolto, lasciato senza respiro
nelle mie notti insonni ad inseguire il tuo profumo d’eternità. Profumo di un amore troppo grande
per un uomo mortale. Mi sorprendevano le luci, dimenticate accese. di una finestra in Via del
Corso, aperta in una notte romantica in cui m’hai detto “credo d’amarti”, attraverso una delle tue
figlie, e poi richiusa in una notte d’inganni e menzogne quando m’hai detto “non dirmi che la tua
vita è con me”? Eri sempre tu a spingermi verso un destino di mille ambizioni e a inondarmi il
letto di lacrime che afferravano il fiato. Incredulo, ora emergo dall’aria satura di ricordi e, mentre ti
vedo, ritrovo parole scritte al buio, mille volte sospirate poi sofferte fra fogli sporchi di dolore,
bagnati d’innocenza di un ragazzo sudafricano diventato uomo maturo in un paese non suo.
Ho desiderato perdermi in te, come d’estate nell’azzurro del mare e diventare il tuo magico
orizzonte. Spesso sto in compagnia della tua essenza ricamando impossibili sogni. Spesso la luna si
poggia sopra un cuscino di stelle stanche, che, spente, sognano lasciando fiamme alla mia anima.
Ma ti amo ancora oggi come tanti almi fa… Con un amore eterno. silenzioso e perfetto come il
cielo.
Vivere con te mi ha aiutato a conservare il mio essere. . . Hai protetto tutti i colori dei miei
sogni…Mi hai costretto ad essere un uomo felice della propria vita nonostante le bombe a Bagdad,
lo Tsunami in Asia e tanti altri disastri e catastrofi nel mondo. Mi hai fatto diventare un uomo mite,
giusto con se stesso e con gli altri. Ovunque vado ora, sei dentro di me come una compagna
segreta. Ogni volta che penso di aver esaurito la mia razione di vita, tu mi solletichi con un ricordo
e di nuovo mi commuovo e vivo come il ragazzo di tanti anni fa che correva a piedi nudi verso una
montagna sudafricana qualsiasi immaginando te. Roma…
Anche se tutto è cambiato dentro e fuori di me, vedo tutto come era allora. Ogni scorcio mi ricorda
qualcosa, un odore. un suono; poi la mente va da soia ed i ricordi ritornano uno dopo 1?altro e con
loro la mia voglia di viverti a valanghe.
Tanta gente dice che sono un pazzo ad amarti così. ” Uno straniero non può avere questi sentimenti
per una città che non è sua”… Dicono i signori della vita. quelli che conoscono il nome e il volto di
Dio…Ma io continuo ad amarti e a volerti bene più di ogni altro 1uogo a me noto. Più mi parlano
male di te, più non riesco a smettere di adorarti, di pensarti, di sentirti vicino a me?
Certo, ci sono ancora persone che non ti amano e che non amano la vita. Ci sono cittadini che
vivono per distruggerti perché odiano la tua gloria e la tua eternità. Ci sono autobus che non
funzionano bene e automobilisti che mutano le tue strade in un autentico inferno. Già, c’è ancora il
traffico asfissiante che rende nero il tuo cielo azzurro. Le tue linee metro non sono ancora adeguate
alla tua importanza. Ci sono ragazzi che cercano di spargere paura nei tuoi vicoli, la stessa paura
che sentono per la loro esistenza. Ci sono mariti che maltrattano le proprie mogli, ragazze che
subiscono violenze nei tuoi parchi… Beh, nessuno è perfetto! Nemmeno la più bella delle città del
mondo può esserlo. Ma, il tuo silenzio è più forte di tutto il male che cerca di emergere dentro di
te… E come hai sconfitto e seppellito, con la tua sola ragione, tutti i Cesari della terra, sconfiggerai e
seppellirai coloro che non lavorano per il tuo bene e per la tua bellezza…
E? strano… A volte mi manchi pur trovandomi ancora qui… E quando ho veramente bisogno di
sentirmi unito a te, esco e mi metto a camminare per le tue strade. . . Cammino da solo, verso le
Mura Latine, senza prestare tanta attenzione ai miei passi, tra la gente che sembra percepire il mio
segreto, la mia malinconia, il vuoto che ogni tanto mi si crea dentro quando penso al giorno che ci
lasceremo. So che un giorno accadrà.
Perché? Perché gli anni passano e un uomo non è mai uguale al giorno prima e quello che ti
soddisfa oggi non è detto che valga per domani. Ci separeremo come tutti gli amanti perché nessun
amore dura in eterno… L’accorgimento di un essere instabile, la virtù di alienarsi da se stessi, dagli
altri, la paura delle cose che finiscono… Sembra poco ed è cosi tanto! Il Tempo. Già! Quando credi
di averne e ti accorgi che il domani è così lontano nel passato… I limiti si avvicinano e poi… e poi si
oltrepassano con la leggerezza di un alito di vento. Scopri anche che il futuro non sostituisce il
passato. che il nuovo non è necessariamente migliore… Contempli sulle spine dell’amore delle cose
la vita che ti sfugge e tu… tu non le stai dietro! Troppo saggio per far la cosa giusta… E lei sfugge
ancora. Ti sfuggirà di nuovo nel passato e 1?avrai rincorsa ancora nel futuro. . .E il presente? E? un
attimo che fugge! O forse non esiste! Il tempo? Non esiste anch’esso e quando rinasce è troppo
tardi. Rimorsi e rimpianti muoiono, e con loro tutto il resto, anche l’amore più grande. Ma io per ora
non voglio ne morire ne allontanarmi da te Roma…Voglio continuare a camminare sulle tue strade
illuminate o buie, non importa.
Spesso mentre cammino incontro i ragazzi che gridano perché arrabbiati… Non riescono a vedere il
loro futuro attraverso la nebbia del nuovo millennio che bagna ogni volto di una tristezza
universale… Le fiamme parigine soffocano tutta l’Europa… La terra trema al pensiero di un altro
possibile conflitto mondiale. per le religioni o per il petrolio? La mancanza degli ideali e la morte
dei valori crea una confusione atroce nelle menti dei giovani che leggono una disperazione senza
nome sul volto dei loro genitori? ma basterebbe guardare te Roma, per capire che tutto passa, e
che le meraviglie della vita restano e resistono contro ogni male. Basterebbe amare te per imparare
ad amare il modo intero, quello che vive dentro i tuoi edifici? quello che attraversa le tue strade
già da secoli e secoli senza smettere mai di esistere.
Sei il coraggio che tutti vanno cercando. Sei la pace che ogni uomo sogna prima di morire. Eppure
sei vera, non soltanto una fantasia incapace di durare per più di un giorno? Vedo uomini e donne
rinascere al solo contatto con te? Trasmetti energia e allegria. Doni sogni e desideri mai percepiti
prima. Sei sconvolgente come un sogno che dilaga l?universo. Mentre alcune città del mondo
bruciano di razzismo, e altre ancora vengono sommerse da ondate di conflitti e di interessi malvagi,
tu silenziosamente sopravvivi e aiuti a sopravvivere? Sei stata creata per guidare il mondo e non
hai mai fallito il tuo compito supremo.
Ha giurato che ti avrei portato nel mio cuore per sempre. Lo sto facendo. E mentre cammino tra uno
sguardo e l?altro capisco che tutti più o meno hanno una loro tristezza nel cuore, dignitosamente
nascosta con quel lieve sorriso che a volte assomiglia tanto al mio. Continuo a camminare verso il
futuro. Ogni tanto mi volto a guardare ciò che rimane dei miei passi in mezzo alla folla e aspetto,
con grande paura, ciò che il tempo avrebbe avuto da offrirmi ancora dopo che mi sarei voltato verso
quel futuro che mi avrebbe potuto portare a ritrovare tutti i miei sogni fanciulleschi dentro di te, se
il destino lo volesse e se soprattutto tu me lo permettessi. Ormai sono vicino a quel futuro che mi ha
fatto conoscere te tanti anni fa? Sento echi lontani, frammenti di voci, morbide la note che prima
sembravano tanto assordanti? Sento il sapore infinito della tua eternità e mi chiedo se sia l?inizio
della mia più immensa gioia, quella di diventare finalmente un tuo cittadino per sempre.
S?intrecciavano quei passi, in fremiti d?intenzione in un giorno in cui basta accarezzare le speranze
solitarie per far germogliare foreste d?illusione nell?anima. E? ancora appeso nel silenzio dei miei
passi, sento che il pensiero accecante di te sbianca di attimi di solitudine, sfilate di pensieri a darmi
la fatica senza paga e fragili sospiri che incalzano le tue stradine verso Piazza San Pietro, Piazza del
Popolo, Piazza Venezia e Piazza di Spagna.
Il mi nome è diventato un suono familiare nelle tue case? Non più straniero, ma quasi italiano. E
suono? Suono, canto e vago. Prima il mio nome era un profondo silenzio, perduto in un lontano
notturno; vasti deserti, un?ampia distesa come il mare e forse il cielo; il primo più vicino, l?altro la
speranza di un preludio a nuove gioie. Poi l?improvviso! Un andante susseguirsi di note, un presto
agitato, un incontrollabile cascata d?emozioni. Cromatica confusione! Bellissima perdizione nel
vortice dell?umanità che di noi uomini è l?essenza. Siamo questo! Connubio di ragione e passione in
una irrazionale lotta e poi? E poi la calma. Su una scala che ritrova i suoi classici schemi tra toni e
semitoni perduti in un soave arpeggio che ingentilisce il cuore e l?anima? Su una tastiera limitata
che dà vita all?infinito e alle indescrivibili arie? Il divino giace su una singola nota nell?armonioso
gioco della vita? la vita? una musica infinita? Se non fosse stato per te, Roma, non avrei
scoperto la mia melodia? Non avrei cantato nelle tue chiese così tanto da diventare la voce di una
musica prima sconosciuta, ma ora familiare. Continuo a suonare e a cantare il sogno che tu mi
regalasti tanti anni fa?
Come un?anima smarrita percorro viali del centro storico che appaiono gravosi e gelidi ai miei
occhi. Sento su di me un abito sempre più pesante di ricordi, alcuni forti, alcuni confusi di sogni
annodati sui sampietrini per non svanire mai, di dolori impressi sulla pelle. I miei passi poggiano su
quelle strade che chissà quante volte hanno percorso altri uomini innamorati di te? Nel mio
sguardo è dipinta la sofferenza di un eterno cercare, di un eterno sperare? S?è un po? fermato il
tempo ad ascoltare la melodia dei battiti del cuore che baciano le speranze. Il sole scalda il crescente
desiderio di vita romana e i pensieri s?alzano ancora più in volo alle carezze del vento. Sei lo
specchio in cui si riflette l?essenza errante della malinconia che accompagna il chiaro sorriso di un
turista, che prova ad inseguire tracciati di vela d?anima in onda.
Nel mio mondo ora non esiste null?altro al di fuori di te, Roma? E forse il mio mondo è una
dimensione astratta fatta di pensieri. E qui si realizza n freddo calcolo. Ciò che realmente, ciò che
vive fuori di noi e senza di noi. La realtà si fa illusione, l?illusione speranza, la speranza
rassegnazione? e infine il vuoto. Di nuovo realtà. Qui comincia la ricerca di una tenacia? di una
forza interiore, che serve a vivere. La forza della solitudine, consapevolezza di una riflessione. A
volte siamo soli, soli per ciò che vogliamo, soli per ciò che sentiamo, soli per ci che viviamo. Il
Rifiuto? di cosa? E? forse peccato amare una città non mia? No, non voglio crederci Devo essere
me stesso, e io sono così! Degli altri? M?importa, sì. Ma così come si lascia la libertà all?uno, così
la si lascia all?atro. Libertà di credere quello che si vuole, di andare dove si può, di amare città e
culture che sanno cantare la melodia della nostra anima. Non temo il tuo rifiuto perché l?amore è
coraggio! Nulla può definirlo, ma tutto porta ad esso? vortice in un imbuto con pareti di vetro?
Forse la luce, forse il buio. E poi la catena ricomincerà: illusione, speranza e? chissà!
Comunque io mi sento al sicuro, nel tuo grembo Roma, avvolto nell?amore eterno che tu mi
regalasti tanti anni fa! Siamo alla seconda settimana dell?anno nuovo? La frenesia festiva ora tace,
mentre la vita s fa strada, bisognosa di essere vissuta come la prima ed ultima meraviglia?come
l?unica festa che vale! E così dico, senza balbettare: possa la tua festa essere migliore persino dei
sogni di chi ti ama oltre ogni cosa! Auguri Roma!
MASA MBATHA-OPASHA


2° Classificato
LA MIA VITA A ROMA

Roma. Quattro lettere, un nome. Io non sapevo nemmeno dove era, cosa fosse l’ltalia. Figuriamoci
Roma. Al mio paese, l’Ecuador, quando si sogna di andare via si sognano gli Stati Uniti non certo
l’Italia. Dell’Italia sapevo solo che era il posto lontano dove erano andate una alla volta le mie zie, le
mie cugine e mia sorella per scappare dalla miseria da cui eravamo tutte imprigionate. Un posto dove
puoi lavorare per mandare soldi a casa e vivere per te stessa. Io fui l’ultima ad arrivare; era il 2002. Ci
misi tanto a decidere, forse non fui nemmeno io a decidere. Ero arrivata ad un punto pericoloso della
mia vita, vicina al non ritorno dall’inferno. Quattro figli da mantenere, un non compagno non marito
violento che mi stava uccidendo piano piano, fisicamente, perché moralmente l?aveva già fatto tante
volte. La fame, la violenza e la povertà ti fanno cadere in ginocchio e io avevo già fatto cose che mi
porterò dentro per sempre come un marchio e una condanna. Ma dissi o forse altri dissero per me basta, basta prima che fosse troppo tardi. Mi ritrovai su un aereo, con un biglietto, un debito economico enorme ancora prima di iniziare a lavorare e una valigia dove dentro c’erano le poche cose che mi erano rimaste. Ne portavo molte di più dentro l’anima, ma erano cose che avrei lasciato volentieri nella mia città.
Avevo 27 anni ma mi sentivo come ne avessi vissuti il doppio. Arrivai una domenica mattina, non
ricordo nemmeno se c’era il sole o faceva freddo per me fece freddo ancora per molti mesi, anche in
piena estate. Era marzo e all?aeroporto c?erano tutti i miei parenti. Zie, sorella, cugina: era domenica e
scoprii che avevano avuto il giorno di libertà dal lavoro, per questo erano tutte lì.
Mi presero per mano come si fa con i bambini e mi cominciarono a spiegare Intanto mi dissero che
avevano si la giornata di libertà ma non potevano portami a casa e quindi saremmo dovute restare in
giro tutta la giornata fino alla sera con la mia valigia, perché non si poteva rientrare e stare in casa da
sole prima del ritorno dei signori da cui lavoravano. Salimmo su un treno e mi dissero che saremmo
andate alla Stazione Termini: lì avrei conosciuto tante altre persone del mio paese perché è li che ci si
ritrova. Io ascoltavo, cercavo di sorridere, mi sforzavo, ma sinceramente non capivo ancora bene dove
fossi. Fu mia zia, la più anziana del gruppo a chiedermi quanti soldi avessi con me. Cinquanta dollari
Risposi, era tutto quello che avevo nel passaporto Mi mise in mano un foglio da dieci euro, mi disse
questa è la moneta Ho avuto il permesso dai signori di farti dormire da me per due notti. Mercoledì
comincerai a lavorare dalla famiglia che ti abbiamo trovato. Ma in questi due giorni non potrai stare in
casa Katty, dovrai prendere l?autobus e andare da sola. Andrai a conoscere la .signora dove lavorerai
poi potrai fare quello che vuoi ma non tornare prima delle otto. E stai attenta agli uomini, specialmente
agli italiani. Io tremavo, non so se dal freddo o dalla paura. Forse era solo il freddo, perché la paura
l’avevo già conosciuta bene nell?altra mia vita. Io vivevo in una città di mare dove c?è sempre il sole
Ecuador, lo dice anche il nome, equatore e io non sapevo cosa fossero giubbotti, cappotti o cose simili.
Ci poggiammo su una panchina della stazione, qualcuna mi portò del cibo, un panino e mentre lo
mangiavo tornò una mia zia con un giubbotto pesante, nero, imbottito. Non avevo mai indossato niente di simile: tieni mi disse è tuo, col tuo primo stipendio me lo ripagherai. La ringraziai e indossandolo capii di essere arrivata a Roma.
La mia Roma è fatta di piccoli passi; di piccole fotografie e ancor più piccole conquiste. Non saprei
dire quando l’ho fatta mia, nè se ancora oggi dopo quattro anni posso dire che sia la mia Roma. Mi
ricordo di aver imparato il romano prima che l’italiano: ahò. ma ‘ndò vai, ammazza che ber culo. Per
noi straniere. peggio se giovani, mi resi conto che all’inizio era un prezzo obbligato da pagare. L?essere cose prima che persona. Mi vergognavo sinceramente ogni volta, e ci stavo male: non capivo perché quando ti offrivano un caffé e tu magari per non morire di solitudine accettavi, non potevano fare a meno di cominciare a toccarti prima una spalla, poi un braccio, poi magari anche la gamba finche non li fermavi e allora diventavano sgarbati, maleducati come se avessero a che fare non con una persona che stava lì per lavorare, ma con una cosa che poteva essere usata a piacimento. Il più stupido ricordo che ho è quello di un tassista, che una sera mi offrì la corsa gratis e cento euro se gli avessi fatto solo toccare le mie gambe. Era una sua mania mi disse come fosse la cosa più naturale del mondo. Avevo voglia di mettermi a piangere: perché avevo fatto tutti quei chilometri, perché lavoravo a tempo pieno senza sosta 6 giorni e mezzo la settimana per provare quelle stesse umiliazioni che avevo dovuto subire in precedenza? Ma poi ci dormivo, pensavo ai miei quattro figli e a quanto stavo facendo per loro. E poi per fortuna mi capitò una volta sola e dopo un po’ cominciai anche a capire come fidarmi delle persone e come comportami. In fondo “ma vaffanculo” non era cosi difficile da imparare. La mia Roma fu all’inizio una sfida con la lingua ma anche e soprattutto con la cucina. Io lavoravo a pieno orario presso una famiglia dove dormivo. Avevano una bambina che dovevo accudire e una casa da governare, quindi pranzi e cene da fare. La cosa non mi spaventava: ne avevo accuditi quattro di figli, spesso senza avere niente per mangiare: qui avevo il frigorifero pieno, potevo mangiare senza problemi e i signori devo dire la verità non erano nemmeno particolarmente esigenti. Bastava mi facessi vedere sempre occupata ma la casa era grande e tempo per stare ferma non ne avevo. Però io che ne sapevo della cucina italiana? I bucatini all’amatriciana: spiegati dalla signora erano facili da preparare ma in Ecuador la pasta quasi non si usa, molto più il riso. Non la scorderò mai la faccia della signora quando vide che invece di metterli nell’acqua misi i bucatini crudi direttamente nella padella col sugo. Per me si cuocevano così che diamine. Ci misi poco ad imparare e non nego che sono diventata brava a cucinare italiano, mettendoci anche un pizzico di fantasia sudamericana. Oggi quando mi fanno un complimento per la lasagna mi inorgoglisco ma non posso fare a meno di ridere rivedendo in un attimo quella padella di bucatini al sugo!
Io per i miei primi quattro anni a Roma ho lavoralo a tempo pieno e avevo libero solo il giovedì
pomeriggio. All’inizio la nostalgia, la tristezza, la fretta di dover imparare tutto un mondo di cose nuove, (lavatrici, lavastoviglie detersivi per i panni per i piatti per i pavimenti per le porte per le finestre mio dio che confusione!) non mi lasciava molto tempo per rendermi conto di dove stavo, di che cos’era
Roma. Roma il giovedì pomeriggio per me era un autobus che mi portava a Piazza Mancini dove mi
chiudevo in una cabina a parlare con i miei quattro figli per ore e una fuga a Stazione Termini
all’ufficio dove spedivo in Ecuador i soldi che guadagnavo. Una volta con mia cugina. una volta con
mia zia, una volta con qualche mia compaesana, ma Roma non era poi così grande per me che
conoscevo solo queste zone oltre alla GS che avevamo sotto casa e dove dovevo far la spesa bene
attenta a riportare lo scontrino. Qualche volta ci si incontrava al Colosseo, un punto di ritrovo per la
comunità ecuadoriana, ma io francamente non amavo molto questi posti. Mi facevano tornare troppo la nostalgia e mi sentivo sradicata dal mio paese e non ancora inserita in questo. Ne carne ne pesce come dite qui. Con mia cugina preferivamo allora camminare avevamo imparato per non perderci a seguire la linea del 225 che da Piazza Mancini arriva a Piazzale Flaminio (oggi mi pare si chiami due).
Andavamo a piedi per risparmiare sul biglietto, perché questa è la realtà e anche un Euro può essere
importante per chi a migliaia di chilometri ti chiede sempre qualcosa di materiale, visto che l’affetto
non puoi darglielo più. Avanti e dietro, avanti e dietro: qualche volta ci spingevamo fino a Via del
Corso per lasciarci incantare da quelle vetrine che potevamo solo guardare. Forse erano sei mesi o forse più che stavo a Roma ed eravamo come al solito io e mia cugina: stavamo all’altezza di Via Flaminia alla chiesa di Santa Croce quando una signora un po’ anziana nella penombra ci si avvicinò dicendo: scusatemi non sono pratica di questa zona ma dove si va per Piazza Euclide?. Mia cugina stava lanciandosi nella solita formula “Siamo dell’Ecuador ci scusi non sappiamo” quando la fermai con un braccio. Il giorno prima il signore presso cui lavoravo mi aveva mandato a ritirare alcune analisi
proprio in un laboratorio vicino Piazza Euclide. Spiegai per filo e per segno alla signora muovendo le
braccia proprio come facevano i romani a cui chiedevo io informazioni. La signora rassicurata
ringraziò e se ne andò verso Euclide. Mia cugina mi guardava perplessa: io mi sentivo orgogliosa di me stessa e cominciavo a prenderci gusto. Roma finalmente era un po’ mia.
Poi circa due anni dopo venne il tempo dell’amore e Roma divenne sempre più la mia citt° e io sempre
un po’ più romana. Io ero incredula, questo non l’avevo messo in preventivo e venivo da una esperienza troppo brutta. Poi non sapevo bene cosa poteva essere il mio futuro, andare via rimanere, ma la passione prese il sopravvento e Roma ci mise del suo. Stefano non si risparmiava: i tramonti allo Zodiaco, le gite sugli imbarcaderi sul Tevere, le pizze tra i vicoli di Trastevere, gli angoli di Testaccio e poi San Pietro, tanti anni a Roma e per la prima volta San Pietro. Era come un sogno: gli dissi seria “Voglio vedere il Papa”. “Bèh se ti fai dare una domenica libera possiamo venire al balcone per la
messa.” “No dissi io voglio andare dal Papa mi lasceranno entrare?” Giuro che ero seria. Sarei andata
stanza per stanza pur di incontrare Sua Santità. Stefano rise e mi accarezzò i capelli abbracciandomi.
Oggi che mi sento molto romana, per esserlo al 100% voglio incontrare il Papa: ci riuscirò un giomo?
Non c’è la mia Roma senza i Romani. Io ho avuto come tutti gli stranieri qualche problema piccolo,
qualche problema grande, ma devo dire che i romani non mi sembrano razzisti nel senso spregevole
della parola. A volte ti guardano con sospetto perché sei straniera, altre volte con commiserazione
perché sei povera, qualche idiota cerca di approfittarsi di te, ma non posso dire di essere mai stata
discriminata solo per il mio status straniero. E quelle volte che è successo forse le ho rimosse.
Preferisco ricordare la gentilezza delle impiegate della Posta che qualche volta hanno chiuso gli occhi
su qualche lieve eccedenza peso dei pacchi che mensilmente spedivo in Ecuador; preferisco ricordare la
fiducia che i miei datori di lavoro mi hanno accordato quando sola e senza nessuno a cui poter
chiedere, dovetti rivolgermi a loro per saldare i debiti verso chi mi aveva pagato il biglietto aereo,
facendomeli trattenere un po’ alla volta sullo stipendio e sulla fiducia. Preferisco ricordare la cortesia di
chi negli uffici pubblici cercava di aiutarmi a raccapezzarmi tra le pastoie della burocrazia per ottenere
il tanto sospirato permesso di soggiorno; preferisco ricordare la gentilezza di un medico che una volta
che stavo sola in casa e che ebbi un improvviso e grave malanno, mi curò malgrado il mio libretto
sanitario fosse scaduto e io non l’avessi rinnovato perché il giovedì pomeriggio avevo sempre altro da
fare.
Insomma la mia Roma è essere diventata romana un po’ alla volta, quasi senza accorgermene, fra cose
belle e meno belle. Oggi mi sento molto romana e grazie all’amore pure romanista. Vorrei ricordarla
sempre così Roma e i romani affinché un giorno anche se dovessi andarmene possa anch’io cantare
“Arrivederci Roma”!
KATHIUSCA ALEJANDRA TOALA OLIVARES
1974, Equador

3° Classificato
UN VIAGGIO ALLA SCOPERTA DELL’IO PLASMATO DA UNA CITTÀ

Il mese d’ottobre a Roma mi è il più caro periodo dell’anno, ma me ne rendo conto solo quando
arriva. Le giornate d’ottobre hanno sempre coronato di fascino la vecchia capitale. Mi ricordo con
precisione scolastica e scolaresca, di aver letto più volte, del fascino delle ?Ottobrate?.
Una passeggiata sul Lungotevere, strisciando con i piedi sul tappeto incredibile di gialle foglie,
diventa per me una sorta di viaggio iniziatico, una preparazione per abbandonare 1’intelletto e
lasciarmi andare, sotto la forza delle emozioni istintive. Il fruscio delle foglie, l’ubriachezza di quel
colore giallo oro. Le foglie sembrano riflettere, come dei piccoli specchi, la luce e il calore del sole.
Un sole amico, non violento, ma materno… come solo nelle incredibili giornate d’ottobre accade a
Roma. Le sensazioni sono quasi voluttuose. Passano gli anni ma il ricordo rimane nitido. più dei
visi amati, e delle pene d’amore. La prima passeggiata romana, a poche ore dal mio arrivo. in quel
giorno d’inizio ottobre. Un caldo e voluttuoso piacere. Tante volte lungo questi anni mi bastava
strusciare le foglie autunnali lungo qualsiasi strada per ricordarmi quel momento magico del
Lungotevere di tanti anni fa, vicino all’Isola Tiberina. lungo il potente muro che proteggeva il
fiume. E? la mia ricorrenza personale, e la festeggio dentro di me come il ricordo di un incontro
antico e immemorabile con una divinità. Ogni immagine, ogni profumo ed ogni suono delle foglie
autunnali fanno parte di questo rituale segreto, la mia festa che ha sempre una nota di melanconica
tristezza.
L’autunno romano mi sconvolge e mi trascina ogni volta con la stessa forza: e io vivo la mia vita
come una giornata d’autunno piena di sole: il sole splende, ma la luce e il calore mutano insieme ai
pensieri e alle circostanze. Come se, facendo una lunga passeggiata, all’ombra senti il freddo, ma se
cambi il lato della strada ti sciogli sotto il calore piacevolissimo dei raggi.
…Ingannevoli gabbiani ruotano intorno al monumento di Piazza Venezia. Ti guardi sempre intorno
cercando in lontananza una spiaggia nascosta. Può darsi siano attratti dal bianco imponente, come
quello di un tempio costruito sulla spiaggia, dello stesso colore della sabbia? F orse troppo
imponente? Il grido dei gabbiani sembra rendere l’ aria romana più umida e salata, quasi ad indurre
il passante a pensare ai lunghi orizzonti marini.
Roma di sicuro è nata sotto un segno d’acqua: amata dai gabbiani, spruzzata dalle decine di fontane,
attraversata dal tranquillo e amato Tevere. Lunghe giornate di pioggia battente ti fanno pensare ogni
tanto di vivere in un Regno acquatico tratto da un romanzo di fantascienza.
Io e Roma: come due personaggi di un romanzo senza una fine prevedibile: l’eterna protagonista
diventa per me il personaggio secondario, specchio e portatore, involucro delle mie sensazioni, e
allo stesso tempo palcoscenico. Ed io. che tante volte mi sento irrecuperabilmente sola ed
insignificante, divento protagonista.
Protagonista nei miei pensieri, come le tante volte che vado a spendere qualche ora nella bellissima
biblioteca di storia. nel palazzo di Via Caetani… mi è capitato di fermarmi per minuti interi a
guardare le decorazioni antiche sui muri, di salire piano le scale. immaginando di fare la stessa
…fatica di qualche nobile di secoli fa.
Mi siedo sulla banchina del Lungotevere: gente che passa e pensa a se stessa. Ognuno vede quello
che gli piace, e i romani sembrano distratti di fronte all’antica Signora, ignorandola e pensando ai
propri affari da sbrigare. I ricchi delle periferie rare volte arrivano al centro… almeno di giorno. La
routine registra lunghe file di sagome sulle affollate vie storiche, con gli occhi incollati a delle
improbabili vetrine…senza sapere il mondo nascosto a due passi dalle rotte turistiche, l’universo
delle piccole stradine labirintiche con palazzi dalle facciate grigie e umide, con i piedi che sentono
il terreno cambiare, …i sampietrini.
Bassezze edili, luci sottili, uniformità umane e continua ricerca di personaggi che ti possano
accompagnare nel tuo sogno, il sangue coperto delle antiche arene, il fasto singolare e sempre più
silenzioso delle cattedrali. Pensieri portati dal vento come delle foglie autunnali.
“Siamo entrati in un mondo di rituali che ci condizionano la vita” pensò, in un momento d’eterea
chiaroveggenza. Tristi e solitari rituali cittadini, per quanto mi concerne, nei limiti concessi da una
sempre sospettosa società che mi accoglie con riserva. Sorrido come se avessi fatto una scoperta
importante. “La mia vita è condizionata da questi piccoli rituali che mi rendono felice. ma solo
momentaneamente. Chi sono e dove vado è deciso da abitudini, più delle volte abitudini che
detesto. SONO DIVENTATA UNA PRIGIONERA”.
A due passi dall’Isola, mio sguardo fissa di nuovo l’antica chiesetta di S. Crisostomo. Mi ricorda,
per quelli piccoli dettagli, le chiese ortodosse. Quante volte l’avrei guardata, in questi anni, e mi è
sempre apparsa come avvolta nel mistero, sempre con i cancelli chiusi. Più volte, da quando vivo a
Roma, avevo pensato alla città come un centro della cristianità. La Roma cristiana è separata dalla
parte imperiale, e dalla parte romantica. Come se fossero tre regni che si tengono a debita distanza,
ognuno con la sua giurisdizione. Tre periodi che mi ricordano stranamente la mia esistenza: le storie
d’amore passionali e fugaci, la gloria, il misticismo.
Il ponte di fronte all’Isola Tiberina è lo sfondo per le mie grandi emozioni. Il ponte nella mia vita.
fra il vecchio e il nuovo. Eppure vado e vengo sulle due sponde. Difficile separarsi dal passato ed
accettare il presente. Tanti rimpianti. Lacrime portate verso il mare dalle onde. Qui, pensavo sul
ponte, la perdita dell’identità parte dal nome.
Posso affermare che Roma mi ha rapita, nel vero senso della parola. Non avevo previsto né
immaginato che la mia vita sarebbe scorsa per tanto tempo nelle vene di questa città. Anno dopo
anno, senza avere la certezza che sarebbe seguito un altro. Io vivo Roma. ma a modo mio.
Prendendo quello che mi piace e che gli altri lasciano da parte: la vivo da estraneo e da figlio
rinnegato. Perché parte di questa famiglia non mi sono mai sentita.
La mia famiglia…il profumo delle feste e l?entusiasmo di quelli che mi circondano. la folla al
supermercato, mi fanno brutalmente a pensare ai miei cari…persi mentre io stavo lontano, e li
accompagnavo solo con i pensieri e con le lacrime. Genitori che invecchiano guardandomi nelle
foto di circostanza, pensieri di giorni interi inchiodati in pochi minuti al telefono.
Forse sono fra i pochi stranieri, che pur avendo la nostalgia di casa, non vorrebbero mai ritornare a
vivere nel loro paese. Tagliato il passato, difficile il presente, incerto il futuro. Ma l?incertezza per
me è fonte di novità, è un cauto ottimismo, è uno stimolo per guardarmi intorno e apprezzare quello
che ho già. “Sii felice qua, mi diceva una cara persona, guarda alla storia che ti trovi intorno…chi
non sarebbe felice a vivere questa città. Trova i tuoi luoghi, i tuoi punti di riferimento e diventa
cosciente di quello che vivi?.
Speranze, delusioni, e di nuovo speranze. Solitudine, ricordi e momenti di gioia.
Il mio respiro scandisce il tempo nella Città Eterna. E in questo momento sento che. facendo mio il
ricordo, una parte di Roma è mia e vivrà per sempre in me.
MIRUNA CAJVANEANU
Romania

Menzione speciale ?Amici per la Città?
DI QUANDO IL MONDO DI AMINA SI DIVISE IN DUE

“A-m-i-n-a, brava!” – disse la maestra mentre lei scriveva il proprio nome sulla lavagna – ”
Accomodati”.
Con i neri occhi sempre bassi, Amina si siede sul suo banco nell’aula della scuola
elementare. Non riesce a guardare i suoi compagni, intimidita dai loro sguardi curiosi e dai
sorrisi che si propagano ogni volta che pronuncia non correttamente una parola.
Ogni mattina la mamma prepara il suo zainetto blu, lo mette sulle sue spalle e la porta a
scuola. Sempre di fretta, perché se arriva in ritardo al lavoro c’è una signora che si
arrabbia.
Perché deve andare lì, lontana dalla sua bella casetta in mezzo alla savana dove ogni
sera si accendeva un bel fuoco e, mentre la mamma preparava la cena, il babbo,
utilizzando quella luce quasi magica proiettata sulla parete della capanna, creava tanti
conigli, rane, uccelli, cani e leoni che la facevano sognare?
La luce del fuoco oggi non c’è più, solo i sogni persistono.
Una volta la maestra chiese ad ogni allievo il nome di un animale che piacesse a loro.
Amina si mise a pensare…giraffe, rinoceronti, ippopotami, zebre e, in mezzo ai cani, gatti,
galline, topolini bianchi fatti in laboratorio (perché sono puliti e non trasmettono malattie) e
uccellini colpevoli di saper volare che scontano l’ergastolo nella loro piccola gabbia, scelse
senza dubbio la zebra.
“Ma come farebbero le zebre a vivere qui, se i campi per andare a mangiare sono così
lontani che bisogna prendere il treno per arrivarci?” Tutti risero dell’idea di una zebra sulla
metropolitana, aspettando infastidita l’arrivo del treno.
La maestra, tra divertimento e curiosità le chiese il perché di quella scelta e si stupì con la
risposta semplice, ma che diceva tanto di quella bambina timida davanti a sé “Perché
sono bianche, ma sono anche nere”.
All’inizio i suoi non capivano come mai un prezioso liquido trasparente e fresco, così raro
nella loro terra, uscisse graziosamente da quei nasoni sparsi per tutta la città. Il babbo
quasi non ci credeva quando apriva il rubinetto e riempiva il suo bicchiere, ammirando la
trasparenza, l’assenza di sapore e di odore.
La mamma la faceva lavare di fretta per non sprecare l’acqua, aveva paura che sparisse in
qualsiasi momento, anche se non sapevano mai quando cominciava e quando finiva la
stagione delle piogge, ma avvertivano solamente il freddo che arrivava all’improvviso.
Dove oggi abita Amina i colori delle persone si mescolano e si confondono creando una
varietà tale da fare invidia al re degli arcobaleni. I palazzi, al contrario, sono tutti dipinti da
uno stesso colore ed attaccati uno all’altro, rendendo l’idea di un grande serpente grigio
con decine e decine di occhi che piangono i vestiti dei lavoratori come lacrime colorate.
Durante la giornata il serpente perde la vivacità con i bambini che se ne vanno a scuola
attaccati ai loro genitori diretti al lavoro, ma la sera sembra riprendersi attraverso il rumore
delle porte che sbattono, dei bambini che piangono, delle coppie che litigano, dei
televisori, lavatrici e radio che lamentano l’assenza di manutenzione.
Amina ascolta, ma come il serpente, solo avverte la presenza di persone attorno a se.
Ad agosto, sotto un sole impietoso, la città si riposa dal fervore delle macchine che
corrono sulle sue vecchie vene. I negozi pian pianino chiudono le loro porte, e tutte le
lingue del mondo si fanno sentire nelle voci delle guide turistiche che fanno fatica a
sintetizzare i più di duemila anni della storia di Roma.
Quando arriva l’autunno Amina si diverte con la pioggia di foglie secche che cadono sui
marciapiedi della città. Il rumore delle foglie che si schiacciano sotto i suoi piccoli piedi è
come una sinfonia fatta di note alte e basse che si alternano: basse quando la mamma
guarda le vetrine sorridenti di vestiti, giocatoli ed elettrodomestici e nervosamente alte
quando sono in ritardo.
Ad Amina piacciono le passeggiate di domenica.
Il padre l’accompagna a vedere gli imperatori immortalati lungo la via dei Fori Imperiali che
si mescolano ai turisti, ansiosi di fotografare il Colosseo con le sue storie di uomini e
bestie che si affrontarono fino alla morte solo per divertire il popolo.
Un giorno Amina vide la neve in TV e aspettò con impazienza che l’inverno arrivasse. Tutti
i giorni si alzava con la speranza di vedere se un tappeto bianco fosse disteso sul cortile,
finche una compagno le disse che non era ancora nato quando Roma si coprì di fiocchi
bianchi.
Delusa, si rivolse alla maestra per essere rincuorata e non perdere la speranza di vedere
la neve. La maestra le raccontò la leggenda della nevicata di agosto alla Piazza di Santa
Maria Maggiore, come segno che a Roma tutto sarebbe potuto accadere.
Tutte le volte che attraversa il fiume, le viene in mente un’altra bella leggenda raccontata
dalla madre in forma di canzone per farla addormentare. ?C?era una volta una lupa/ che
due neonati trovò/ con il suo buon latte li salvò/ Uno era Romolo e l?altro Remo/ Erano
cullati dal fiume/ cui nome non era Reno/ Ora la mamma la luce deve spegnere/ dormi tu,
dormono i pesciolini in mezzo al Tevere”.
Amina non aveva mai sentito una storia più fantastica di questa. Era come se quel piccolo
bottone che ogni bambino porta dentro di se aldilà della propria appartenenza, fosse stato
premuto improvvisamente, riempì la madre di domande che ancora non avevano risposte
e quella sua metà che piangeva di nostalgia, soffocando la voglia di adattarsi ad una
nuova realtà si trasformò in una grande curiosità.
Era spaventata dalla idea che sotto i propri piede c’era un’altra città e forse un’altra
ancora, cos’è che le ha fatte sparire e dare luogo al palazzo dove abitava e alla scuola che
frequentava? Un bel giorno, la maestra organizzò una visita alla Bocca della Verità e tutti i
suoi compagni, divertiti, introducevano la mano nella spaventosa apertura. Mentre Amina,
intimorita, strinse la pallida mano della maestra che le sorrise e prese la sua piccola mano
destra ed unite le posero nella bocca.
E fa paura venne sostituita dal divertimento che, alleato alla curiosità, ha dato il via alla
voglia di sapere di più.
Con il tempo e la sua conseguenza diretta, la crescita, Amina imparò il nome delle cose
che nella sua distante e amata capanna non avrebbero avuto nessuna utilità, scoprì ogni
via della città attraverso la finestra di un autobus o sul sedile di un motorino, si perse
dentro i musei, solo per ritrovarsi in mezzo ai tanti frammenti dell’Africa che raccontavano
quello che lei non avrebbe mai scoperto di se stessa.
Una volta vide un dipinto che le portò alla memoria la scena di una bambina camminando
scalza per una lunga strada di terra rossa, aveva sulla testa un secchio pieno d’acqua
marrone che veniva depositata dentro di un contenitore più grande, all’interno di una
misera capanna.
Vide lo sguardo triste di un padre che aveva appena sacrificato l’ultima delle sei mucche
rimaste, morte per siccità. Sentì la madre che singhiozzava, dicendo che la nonna non
sarebbe riuscita a resistere ad un viaggio così lungo e poi una voce anziana ma forte e
nitida: ?Posso non sopportare il viaggio, ma la solitudine sì. Andate, sono io a decidere, è
questa la tradizione.”
Gli occhi di Amina si riempirono di lacrime ed il suo cuore si divise in due: una parte di lei
trasudava amore e l’altra, anche.
CLAUDILEIA LEMES DIAS
1979, Brasile

Menzione speciale ?I love Roma?
ROMA DI GIULIA

La prima Roma di Giulia è la Roma che ormai non esiste più o, meglio , che esiste
so1o nei 1ibri di scuo1a e ne1la memoria dell?umanità. La Roma degli imperatori e
dei legionari che ha lasciato le sue tracce dalla Britannia al1’Africa. Giulia, quando
era piccola, leggeva questi libri come fiabe e non riusciva a credere ed a
comprendere come questo impero di uomini potenti e saggi fosse andato alla rovina
ed anche come tra i romani ci fossero stupidi e malvagi. Affascinata da tutto ciò,
Giulia, quando era piccola, sognava un giorno di andare a conoscere Roma.
Un’altra Roma di Giulia è il lungotevere con i suoi platani le cui foglie non si
ingialliscono mai come nel suo primo autunno lungo, bellissimo e pieno di sole, che
a Giulia piace credere sia un regalo personale per lei da parte di Roma. La gente si
volta a guardarla e non comprende perché lei canti nel bel mezzo dell’autunno “è
primavera, svegliatevi bambine?! Eh si perché questo primo autunno romano è
come se fosse una primavera nel cuore di Giulia. Anche se non riesce a trovare un
lavoro, a trovare una casa e se, a volte, la disperazione le penetra nell?anima e vi
rimane li a lungo. Ma no. ” è primavera…?.
Poi questo bellissimo autunno finisce e Giulia finalmente trova il lavoro. E trova la
casa. La casa è a Garbatella e il lavoro a via Conca D’Oro. E Giulia impegna quasi
quattro ore al giorno tra andata e ritorno nei pullman e nella metro. E quando
aspetta troppo a lungo il pullman si arrabbia a pensare quante belle cose poteva
fare nel frattempo.
Un’altra Roma di Giulia è quando lei arriva dai signori dove lavora ed il suo cuore si
riempie di tenerezza: un’anziana coppia che vive insieme da tantissimi anni; sono
pieni di dolcezza e premura reciproca e portano avanti con serenità e coraggio i
propri malori. Ogni giorno aspettano Giulia con ansia e le fanno un sacco di
domande: “come hai passato il weekend ? dove sei stata? cosa hai visto?” Sono
sinceramente interessati come dei bambini avidi ed insaziabili di nuove emozioni.
Giulia è felice di raccontare e condividere con loro le sue gioie e la sua vita
cercando di farli sorridere.
Un altro mondo di Giulia, che lei adora, è la Roma delle meraviglie.
Meraviglie sono i suoi amici che non sono tanti e per questo sono ancora più
preziosi. Meraviglie sono le scoperte continue, le sorprese che non finiscono mai:
un piccolo cortile alle spalle di Campo di Fiori in cui sembra che si sia fermato il
tempo, un tratto delle Mura Serviane dentro un pub irlandese del centro, la statua
parlante di Pasquino, un gregge di pecore che attraversa l’Appia Antica… Le
schegge della sua storia che Giulia va a conoscere con i suoi piedi, camminando
instancabile per i vicoletti curvi e stretti del centro storico o per i prati delle sue
periferie Coperti di erba verde anche a gennaio. E porta a casa l’ immagine
dell’albero di mimosa, che come lei ha confuso tutte le stagioni e fiorisce poco
prima del capodanno; dei genitori che passeggiano con i figli per piazza Navona e
ai quali non riescono a negare un’ ennesima Befana con la calza piena di dolci e
magari con un piccolo pezzettino di carbone .
Un’altra Roma di Giulia è piena di musica: sembrerà strano ma di musica irlandese.
Tutti i suoi amici sono appassionati di musica del1?isola verde e Giulia va ogni
tanto ad ascoltarli alle loro sessions ai pub. E poi, quando torna a casa, questa
musica risuona ancora a lungo nella sua testa e Giulia tiene il ritmo con i piedi e
balla con la scopa tra le mani. A Giulia piace ballare. A capodanno lei è stata ad una
festa di musica e balli popolari in un centro sociale. Si è buttata nella pizzica e nella
tammuriata che l’hanno affascinata e che non aveva mai ballato prima e non
importa che 1e sue mani ed i suoi piedi si muovessero diversamente da tutti gli
altri. Ipnotizzata dal ritmo e dalla voce che sembrava arrivare da lontano, si
muoveva tra la folla percependo e assorbendo questa passione che si avvertiva
nel1?aria. Alla gente brillavano gli occhi. Il respiro profondo, i battiti di castagnette
facevano il ritmo che 1ei voleva continuare a sentire dentro di se. Ogni capodanno
Giulia aspetta un piccolo miracolo. Il miracolo non avviene e lei ci rimane male. Poi
decide che se il miracolo non arriva bisogna crearlo. Solo dopo si rende conto che
il miracolo è stato questa stanza piena di gente felice di ballare insieme e dividere
la loro gioia sorridendo.
Un?altra Roma di Giulia è piena di neve. Di neve che a Roma non c?è mai. Spesso
Giulia sogna di svegliarsi la mattina e trovare tutti i palazzi, le piazze, il Colosseo,
gli alberi coperti di neve che luccica sotto i raggi di sole, abbagliando gli occhi. A
volte, quando lei esce la mattina presto, le sembra di sentire il profumo di neve, di
questi fiocchi grandi e piumosi che da qualche parte stanno coprendo dolcemente
la terra o stanno baciando le guance di una bambina.
Molto spesso a Giulia sembra che la sua Roma sia del tutto surreale. Quando la
vede nel caos dei giorni attraverso il vetro dei pullman, coperto di gocce di pioggia
che sembra non finire mai, i quadri spezzati che vede le ricordano gli episodi di un
film di un regista impazzito. Spesso lei non crede a se stessa di vivere in questa
città che sognava da piccola. Spesso si sente persa. Spesso si chiede “ma che ci
stai a fare qua, tra la gente a cui non importa nulla di te, lontano da quelli che ti
vogliono bene e a cui vuoi bene tu? Facendo il lavoro che non pensavi mai di fare?
Hai fatto la scelta giusta tre lunghi anni fa quando, a trenta anni, hai deciso di
cercare lavoro in Italia?” (e la bambina delle fiabe dell’impero romano trattiene il
fiato, incredula, eccitata e spaventata). Ma poi Giulia scuote i capelli biondo dorati
e ritorna a sorridere ai sui amici perché lo ss che sono loro i veri tesori della sua
vita.
A Roma Giulia ha cominciato la nuova vita. Con il nome nuovo.
Perché in Russia lei si chiamava Gulnara.
GULNARA MAGAFUROVA
1971, UFA Federazione Russa