Si parla spesso di “diritto alla salute” anche se -come recentemente mi ha precisato un amico- l’espressione non è semanticamente corretta: nessuna legge, infatti, può garantire tale diritto perché nessuno ha il potere di renderlo esecutivo.

La salute è certamente un bene prezioso che tutti vorremmo, ma non qualcosa alla quale abbiamo -letteralmente- “diritto”. Quello che la nostra Costituzione (art.32) definisce come diritto del cittadino -e dunque dovere dello stato- è piuttosto la tutela della salute e quello che garantisce è la cura gratuita agli indigenti: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Ma -per garantire questa tutela e questa cura– non ci si è fermati all’articolo della Costituzione, il determinante passo in avanti è stato fatto con la legge 883/1978 e l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale il quale -come ha ricordato il presidente Mattarella l’8 marzo 2018- “fissò le fondamenta di un diritto universale alla salute, in precedenza non pienamente garantito, grazie alla ferma determinazione della prima donna ministra, Tina Anselmi, che seppe catalizzare vasti consensi politici.”. I tre principi guida stabiliti dalla legge 883 sono: l’unitarietà dei livelli di assistenza su tutto il territorio, l’equità d’accesso ai servizi per tutti i cittadini e la solidarietà fiscale quale forma fondamentale di finanziamento del sistema. In sostanza dunque tutti i cittadini hanno uguale diritto alla tutela della salute e alle cure gratuite a carico della collettività.

Parallelamente al pubblico e universale Servizio Sanitario Nazionale esiste -ed è sempre esistita- una sanità privata che offre i suoi servizi a pagamento. L’assetto normativo non è cambiato, e allora perché ne parliamo? Perché il problema della tutela della salute sta diventando sempre più grave ed urgente?

Perché la sanità pubblica è sempre meno accessibile e la sanità privata è accessibile solo a chi può permettersela. E chi non se la può permettere -in misura sempre maggiore- rinuncia a curarsi (4.5 milioni di persone). I dati ISTAT-BES più recenti sono relativi al 2023 e dicono che il 7,6 per cento di tutta la popolazione italiana ha dovuto fare a meno di esami e visite (in peggioramento rispetto al 2022, quando aveva rinunciato il 7 per cento della popolazione): in un solo anno circa 372mila persone in più hanno rinunciato a curarsi perché esami e visite hanno un costo (ticket) per molti troppo elevato, perché è diventato complicato prenotare e soprattutto perché l’attesa è lunghissima. L’impatto della rinuncia alle cure è sottovalutato nel dibattito pubblico, eppure medici ed esperti di sanità concordano sul fatto che alla lunga avrà conseguenze molto gravi sulla sostenibilità economica del servizio sanitario nazionale e in definitiva sulla salute pubblica.

Il tempo di attesa è il muro su cui si infrangono i principi, è l’anello debole della catena e la misura del livello di efficienza o inefficienza di qualunque servizio. Vale per l’erogazione dei servizi sanitari, ma anche -ad esempio- per l’amministrazione delle giustizia, per la reattività delle istituzioni alle denunce di carenza e alle segnalazioni di disagi anche gravi. E’ il tempo di attesa il vero banco di prova per chi offre servizi e per chi ha il dovere di garantirli. Se si ragiona senza misurarsi con i tempi di attesa i diritti restano un guscio vuoto: non c’è bisogno di negarli, basta restare inattivi quando non sono effettivamente esigibili, lasciarli decadere per “asfissia” non assicurando loro l’attenzione alle priorità, i necessari stanziamenti e lasciare che la loro scomparsa venga percepita come ineluttabile. I diritti muoiono così, poco a poco, svuotati dall’interno.

Nessuno è così ingenuo da non cogliere che -in tempi di crisi- c’è un problema di risorse economiche, ma proprio questo è il compito specifico di chi governa: reperire le risorse necessarie per garantire i servizi che devono essere garantiti e -se le risorse non sono sufficienti- prendersi la responsabilità (elettoralmente costosa) di aumentare il prelievo fiscale o stabilire esplicitamente le priorità di spesa (anche questa elettoralmente costosa) tagliando quello che è meno essenziale ed urgente. L’alternativa (elettoralmente meno costosa) è non fare né prelievi, né tagli espliciti e -tra un proclama e una promessa- lasciare che il “tempo di attesa” faccia il suo lavoro, i servizi non siano -di fatto- più garantiti in tempo utile e tutto sia percepito come un ineluttabile destino e non il tacito ripristino dell’antica regola per la quale i più forti sopravvivono e i meno forti soccombono.

Ci sono guerre che non si vedono, ma fanno vittime come le altre.