La mattina del 4 ottobre 1962, alle 6 e mezza, dopo oltre un secolo dall’ultima volta, un treno si mosse dalla vecchia stazione del vaticano per portare Giovanni XXIII a Loreto e ad Assisi. Quel treno rientrò in vaticano la sera stessa alle 22,15: «Ho fatto buon viaggio, commentò il papa, sono emozionatissimo e contentissimo. Il mio cuore si è riempito di gioia e di esultanza». Era il primo viaggio di un papa fuori Roma e a molti sembrò una originale stranezza della modernità, una breve variante itinerante, rispetto alla tradizionale immagine del papa docente e benedicente dal balcone di piazza San Pietro.
Da allora sono passati quasi sessant’anni, si sono avvicendati altri cinque papi e viaggiare è diventato uno dei linguaggi più efficaci che i papi utilizzano nel loro ministero, un linguaggio declinato su luoghi ed eventi significativi, un modo per testimoniare una presenza attenta e una prossimità tangibile alla storia dell’umanità.
Questa volta l’Iraq, l’antica Mesopotamia, la terra dei due fiumi dove è cominciato il viaggio di Abramo che ancora non è finito. L’Iraq della scissura più lacerante dell’Islam, la ferita profonda e insanabile tra sunniti e sciiti, sancita dalla strage di Kerbala del 680 e il sacrificio di Al-Husseyn, ricordato ogni anno nelle imponenti cerimonie della festa dell’Ashura. Ma è anche l’Iraq più recente di Saddam, quello della guerra decennale con l’Iran negli anni 80, quello distrutto dalle bombe nella prima guerra del golfo negli anni 90 e poi invaso nella seconda guerra del golfo dopo l’11 settembre. E’ infine l’Iraq dell’Isis, quello del terrore di Al-Baghdadi, del conflitto con la Siria che ha travolto i curdi, yazidi e cristiani del nord-ovest. Ce n’è abbastanza per considerare questa terra cruciale e questo viaggio significativo?
Il papa a Najaf ha incontrato l’ayatollah Al-Sistani, portatore di una mistica politica storicamente opposta a quello di Khomeini e ha riequilibrato il rapporto con gli sciiti dopo i contatti con i sunniti in Egitto e la firma della Dichiarazione di Abu Dhabi sulla Fratellanza umana con Grande Imam di Al-Azhar.
“Il Santo Padre –ha detto il portavoce vaticano– ha ringraziato Al-Sistani perché, assieme alla comunità sciita, di fronte alla violenza e alle grandi difficoltà degli anni scorsi, ha levato la sua voce in difesa dei più deboli e perseguitati, affermando la sacralità della vita umana e l’importanza dell’unità del popolo iracheno”.
Capisco che le vicende dell’Iraq, le condizioni degli Yazidi e le migrazioni dei curdi nella piana di Nìnive non possano rivaleggiare in intensità con le gesta di Achille Lauro a Sanremo, tuttavia -visto che Sanremo è ormai finito- non sarebbe male evitare di ridurre il nostro interesse al passaggio da zona gialla ad arancione e all’asporto oltre le diciotto: rischiamo di dover ricordare questi mesi come una clausura della mente oltre che dei corpi.
Sembra che un documento preparatorio del viaggio in Iraq avesse avvertito gli organizzatori locali che, nei suoi spostamenti, “il Papa non può fare più di una decina di passi” a causa della nota sciatalgia. Ho pensato che per essere un ottantaquattrenne appesantito e un po’ sciancato non deve essere stata proprio una passeggiata un viaggio come questo. Mi auguro che tornando a casa possa dire -come il suo predecessore sessant’anni fa- «ho fatto buon viaggio, sono emozionatissimo e contentissimo». Io non so se -a quell’età- ce la farei: forse simulerei un improvviso interesse sociologico e starei a casa a vedere Sanremo