Oggi mi trovo a Malta e ho visitato uno dei cosiddetti “centri aperti”, cioè quei luoghi dove sono sistemate le persone che sono state riconosciute rifugiate dal governo maltese. Quelli, insomma, che hanno provato senza ombra di dubbio di essere fuggiti da luoghi come la Somalia, l’Eritrea, il Sudan perché la loro vita era in pericolo. E non in modo generico, ma in modo specifico: ciascuno di loro è stato personalmente perseguitato, incarcerato, torturato. Dopo una lunga procedura, durante la quale si sta in carcere (forse neanche questo vi pare logico, ma è così che funziona), finalmente “vinci”. Esci, sei libero, ti viene riconosciuto che non hai mentito, che sei davvero un rifugiato e l’Europa ti concede graziosamente la sua protezione. Oggi ho visitato questa protezione. Un accampamento di tende. In ciascuna tenda vivono 25 persone. Cucinano dentro la tenda con fornelletti a gas, dormono dentro la tenda, vivono, di fatto, nel poco spazio tra una tenda e l’altra. Se vogliono, possono uscire. Ma a fare cosa? Malta è tutta lì. Nessuna speranza di trovare lavoro, nessuna speranza di fare nulla. Lo stato passa a ciascuno circa 100 euro al mese, che eventualmente possono essere ridotti a 80 o 50 (a seconda dei casi). Con questi soldi devono pagare un tot per il letto (quello nella tenda, si intende) e comprarsi da mangiare. Aspettano. Cosa? Sostanzialmente due cose. La botta di culo, in primo luogo: dal 2007 ad oggi, circa 500 rifugiati sono stati presi dai campi e portati negli Stati Uniti. Considerato che ne sono arrivati, negli anni migliori, fino a 47.000, capite bene che la probabilità non è altissima. Seconda alternativa: scappare in un altro Paese di Europa. E qui viene la beffa più grande. Magari vai in Svezia, o in Francia, o in Germania dove vive tuo fratello o gli amici del tuo villaggio. Ci vai anche legalmente, perché sei rifugiato e puoi viaggiare in Europa. Ma dopo tre mesi dovresti tornare nel nulla da cui vieni. Se non lo fai, quando ti acchiappano (e ti acchiappano certamente, è solo questione di tempo) ti rimandano nella tenda da cui sei venuto. E ti dimezzano il budget mensile, perché hai cercato di costruirti una vita appena appena decente altrove. Mentre io entravo, un ragazzo era appena arrivato da Francoforte. Il suo sguardo diceva tutto. Molti impazziscono. Alcuni tentano di ammazzarsi. Qualcuno ci riesce, anche se è costretto a farlo davanti a altre 24 persone. Non vi so descrivere quanto fa male vedere questi ragazzi di vent’anni, che avrebbero tutto il diritto di avere una vita davanti, trattati così. Se vogliamo, ne avrebbero diritto in modo particolare, perché non hanno scelto di venire in Europa: sono stati costretti. Più di uno mi ha detto che pensa di tornare in Somalia, per morire con dignità. “Se l’Europa pensasse che siamo esseri umani, non ci tratterebbe così”, diceva un altro. Il degrado esiste anche in Italia, lo Stato colpevolmente lo tollera. Ma non lo organizza. Come si può immaginare che delle persone vivano a tempo indeterminato (alcuni erano lì da tre anni) in una tenda logora, sotto il sole e sotto la pioggia, con un numero assolutamente ridicolo di bagni chimici a disposizione e, soprattutto, senza nessuna prospettiva? Mi dicono che non ho visto il campo peggiore, l’hangar. Un mio collega del JRS Malta, rifugiato, ci ha vissuto per due mesi. Un unico capannone in lamiera per 400 persone, senza spazi divisori, senza riscaldamento d’inverno e incandescente d’estate. Se ci tenessimo dei cani, l’opinione pubblica (giustamente) si indignerebbe. A Malta ci sistemano persone scampate miracolosamente alla morte, tanto per essere sicuri che si pentano amaramente di non essere morti.

Mi dispiace raccontarvi solo questo di Malta. Mi impegno a descrivervi, in un altro articolo, anche il colore stupendo del mare, l’ospitalità squisita dei suoi abitanti, il rosa della pietra e la meraviglia armoniosa di una lingua improbabile. Ma oggi non potevo scrivere altro che questo, oltre che cercare di ricordare tutti i nomi e i volti delle persone che ho incontrato: Hassan, Ahmad, Ali…. Un sudanese del Darfur mi ha raccontato, con l’aiuto di un amico, che la sua domanda d’asilo è stata rifiutata. Mi ha scritto su un foglio il numero di telefono, chiedendomi se posso fare qualcosa per lui, qualunque cosa. Io guardo il foglietto e posso solo essere certa della mia impotenza. “Perché non fate fotografie? Perché non fate vedere all’Europa in che condizioni ci fanno vivere?” ci chiedevano tutti. Perché ce l’hanno proibito. Io sono stata seriamente tentata di trasgredire, ma non me la sono sentita. Se qualcuno mi avesse visto, i colleghi di Malta non avrebbero più accesso ai campi e le persone lì ne avrebbero avuto solo un danno. Ma la crudeltà dell’Europa non finisce di stupirmi.


Nella foto, uno dei campi per rifugiati di Hal Far, sulla costa meridionale dell’isola. (Foto Marios Stavrou)