Qualche anno fa mi è capitato di leggere un cartello esposto nella portineria di un condominio: “Se c’è rimedio perché ti arrabbi? se non c’è rimedio perché ti arrabbi?”, un adagio popolare di cui sorridere, ma del quale è difficile contraddire la logica: spesso il problema non è negli eventi, è in come noi ci poniamo di fronte ad essi.

Ci sono alcune cose che tutti vorremmo evitare: la morte, il dolore, certi distacchi, l’amarezza di non essere capiti, le fatiche inutili…, ma non sempre ci è possibile. Riuscire a distinguere le cose davvero inevitabili da quelle che possiamo controllare è un discrimine importante, perché considerare inevitabili esiti che non lo sono ci spingerà a rinunciare a modificarli e -al contrario- considerare modificabili esiti che sono inevitabili, ci porterà a sprecare tempo e a farci inutilmente del male.

Siamo abituati a considerare l’inevitabilità una sorta di sciagura, una resa, una disfatta. Ma -al contrario- la consapevolezza dell’inevitabilità è un passaggio estremamente positivo: ci aiuta a definire il campo di ciò che è possibile cambiare, ci risparmia inutili delusioni e ci spinge a concentrare le energie su ciò che possiamo ragionevolmente sperare che accada. Tuttavia identificare ciò che è davvero inevitabile è meno facile di quanto sembri. A volte ci affrettiamo a definire inevitabile un determinato esito per pigrizia, perché ci pesa impegnarci per conseguirlo o perché non vogliamo ammettere di non riuscirci (la volpe e l’uva…). A volte invece ci ostiniamo e ritenere evitabile ciò che non è tale per orgoglio, per “tenere il punto” o -più semplicemente- perché non ci rassegniamo all’idea di rinunciare a qualcosa che vorremmo a tutti i costi.

In un recente dibattito televisivo (tra Corrado Augias e Giovanni Floris) si parlava dell’esigenza di proibire l’uso del cellulare sotto una certa età o in determinati luoghi e lo sviluppo del dialogo ha reso progressivamente evidente la divaricazione tra i due approcci: da una parte la ricerca di ciò che sarebbe giusto e migliore, dall’altra (senza negare la prima) la ricerca di ciò che è realmente possibile fare senza illudersi che basti condannare e proibire alcune cose perché queste scompaiano magicamente. 

Su temi ben più drammatici, la stessa divaricazione si ripresenta costantemente nelle due circostanze cruciali che il nostro tempo sta vivendo: le migrazioni e le guerre, ambedue questioni di confini violati. Se bastasse dichiararsi contro le guerre (soprattutto quelle altrui) perché queste scompaiano o se bastasse auspicare irenici scenari nei quali migrare non fosse più l’esigenza di nessuno… la pace e la stabilità sarebbero un gioco da ragazzi! Purtroppo questo non è un gioco a chi disegna il migliore orizzonte ideale, ma a chi non si stanca di definire e ridefinire il campo del possibile e faticosamente cerca di avanzare un passo dopo l’altro, accontentandosi di successi parziali, nella prospettiva che il campo del possibile possa estendersi sempre di più. Sono partite che si vincono a piccoli passi: sciogliere il nodo di Gordio tagliandolo con la spada è riuscito solo una volta ad Alessandro Magno… ma sono passati 24 secoli e probabilmente è un mito!

Spesso assistiamo a dibattiti massimalisti (e surreali) nei quali apparentemente si fronteggiano opinioni diverse mentre si tratta solo di desideri o paure diverse, ma la realtà non viaggia alla stessa velocità delle opinioni e dei desideri. Quando accade mi torna regolarmente alla memoria la risposta di Woody Allen ad un giornalista che lo interrogava su cosa pensasse della morte: “sono totalmente contrario”.