Alcuni commentatori sono rimasti sorpresi dalla recente affermazione di papa Francesco: “Dialogare non significa rinunciare alle proprie idee e tradizioni, ma alla pretesa che siano uniche ed assolute” (qui). L’affermazione si impone per la sua immediata condivisibilità al punto di rasentare -come tutte le verità evidenti- l’ovvietà. Da dove allora lo stupore?
Ovviamente dal fatto che essa sia formulata da un papa, da qualcuno cioè che -nell’immaginario collettivo- fa proprio il mestiere opposto: sostenere l’unicità e l’assolutezza delle idee e delle tradizioni che predica. Insomma: se c’è uno che può (anzi, per alcuni, deve!) permettersi di considerare le proprie idee uniche e assolute, questo è proprio il papa…, non è forse (per i cattolici) il simbolo di quanti credono nell’Assoluto e l’interprete ultimo della sua rivelazione?
E invece no, sembra dire papa Francesco, non ci sono zone franche, non ci sono eccezioni: se credi in qualcosa che per te è unica e assoluta (e ovviamente lui ci crede), questo non ti autorizza a pretendere che tutti la riconoscano tale, pena l’impossibilità di dialogare (e di capirsi). Puoi pretendere che gli altri rispettino il tuo credere ma te ne devi prendere la responsabilità soggettiva, non puoi pretendere che esso sia considerato oggettivamente (da tutti) unico e assoluto, né che esso ti esenti dal rispettare in ugual misura il credere degli altri.
Nulla di teologicamente sconvolgente (non ha mica messo in dubbio l’assolutezza e l’unicità di quanto i cristiani credono!), ma un bel paletto l’ha piantato: nella comunicazione nessuno può pretendere di valere più del suo interlocutore. E’ il presupposto di qualunque comunicazione voglia funzionare, qualunque sia il suo contenuto.