Poche ricorrenze riescono quanto il Natale ad apparirci -o ad essere realmente- uguali a se stesse. La ciclicità degli eventi è estremamente rassicurante e poche cose -in questi anni- si vendono bene quanto la necessità di essere rassicurati.

 

Nell’ansia che ci sfuggano le cicliche “ritualità” alle quali ancoriamo le nostre certezze, tendiamo ad estenderne la durata nell’illusione di rubare il tempo all’insicurezza dalla quale ci sentiamo minacciati: inauguriamo il clima natalizio già a fine ottobre con i primi panettoni e lo prolunghiamo volentieri fino a febbraio quando i supermercati ci offrono -a tre euro- gli ultimi.

La ripetizione ciclica offre il conforto del già conosciuto: ogni stagione che si ripresenta, ogni routine che scandisce il tempo, sembra un abbraccio che protegge dal caos dell’imprevisto. Ma lo stesso cerchio che dà sicurezza può diventare una prigione: quando tutto si ripete, l’orizzonte si appiattisce e la vita si riduce a un susseguirsi di gesti privi di significato nuovo. La ciclicità si trasforma allora in una gabbia, soffocando il desiderio di cambiamento e di evoluzione. È la stagnazione di chi sa già come andrà a finire, di chi non può più sorprendersi o sbagliare. Così, tra il desiderio di solidità e il bisogno di esplorare l’ignoto, si crea una tensione che non trova mai una risoluzione definitiva; entrambe le prospettive presentano opposti inquietanti: l’una nega la possibilità di fuga, l’altra quella di stabilità.

Il paradosso è che un Natale così “incastrato” nella ripetizione di se stesso contraddice il senso più profondo che ha nella teologia cristiana, in cui costituisce esattamente l’evento che spezza la ciclicità della storia: il dio che “scende dalle stelle”, prende un corpo ed irrompe fisicamente nella storia degli uomini ridefinendone il significato e scongiurandone la sterilità. E’ proprio questa “incarnazione” il tratto distintivo del cristianesimo rispetto alle prospettive delle altre grandi religioni.

Ci troviamo così oscillanti tra due concezioni opposte del tempo e della vita, una circolare e una lineare: la giostra che fa i suoi giri in modo sostanzialmente sempre uguale (a parte il colore dei capelli) e la strada che procede curva dopo curva, sempre esposta al rischio dell’imprevisto, ma anche alla speranza di uno sviluppo migliore.

Il verso che dà il titolo a questa riflessione è tratto da una canzone di oltre cinquant’anni fa:

“O giorni, o mesi che andate sempre via,

sempre simile a voi è questa vita mia

diverso tutti gli anni, ma tutti gli anni uguale

la mano di tarocchi che non sai mai giocare…”

L’augurio di Natale è allora quello di riuscire a giocarla questa mano di tarocchi e a giocarla bene; riuscire a non subire la ciclicità -accontentandoci della confortevole ripetizione del passato- per accettare il rischio di sperare; quel tipo di speranza che non aspetta che le cose cambino da sole, ma cerca di farle cambiare perché crede che sia possibile.

Buon Natale.