Ebani enormi, liane fiori e frutti di cacao, il rosso vivo delle eliconie, felci, orchidee, alberi dalla cui corteccia fuoriesce un liquido scuro (sangue di drago) che cura il mal di stomaco, oppure, strofinato sui denti, è usato come dentifricio.
Termitai enormi, farfalle di ogni colore, insetti di ogni dimensione.
È la foresta pluviale ecuadoriana, percorsa dall’imponente Rio Napo che dal fianco del vulcano Cotopaxi scorre in mezzo al verde fino a sfociare nel Rio delle Amazzoni.
Qui si respira l’aria umida del cuore della foresta tropicale più grande del mondo, l’Amazzonia.
Un paradiso naturale. A prima vista. Eppure…
Eppure, per scoprire la realtà delle cose, basta scavare appena un po’. Scavare indietro nel passato, arrivando agli anni ’60 quando le prime migliaia di ettari di foresta vergine cominciarono ad essere concessi alla Texaco (dal 2001 Chevron-Texaco) per estrarre il petrolio dal sottosuolo. E scavare nella terra. Basta una piccola zolla raccolta una decina di centimetri sotto la superficie, che tra le mani diventa una poltiglia oleosa e nerastra dal fortissimo odore di petrolio. Scendendo più a fondo si scopre che è così fino a cinque metri di profondità. E che è così, ormai, per oltre un milione e mezzo di ettari di foresta.
Il verde brillante della selva nasconde uno dei disastri ecologici più gravi dell’ultimo secolo. Oltre 60 milioni di litri di greggio e circa 70 miliardi di liquami tossici scaricati nell’ambiente. “Qui la Texaco utilizzò una tecnologia non permessa in nessuna altra parte del mondo” ci spiegava lo scorso novembre Ermès Chaves, presidente del Frente de defensa de la Amazonia (Fronte per la difesa dell’Amazzonia). “Per massimizzare i profitti, le acque di lavorazione, piene di sostanze tossiche e cancerogene, furono riversate in superficie, nel terreno e nei fiumi, invece che essere re iniettate nelle perforazioni. I prodotti di scarto, come in fanghi, carichi di sostanze chimiche e metalli pesanti, avrebbero dovuto essere conservati in fosse stabili e isolate, mentre furono stoccati in fosse a cielo aperto (le ‘piscine’) permettendo così alle tossine di penetrare nel suole e nelle acque sotterranee”.
Il risultato è evidente: l’acqua dei fiumi e dei torrenti, usata dalle popolazioni indigene che in questi territori vivono da secoli per cucinare, lavarsi e spesso anche per bere, è contaminata. Contaminata è l’acqua dove gli indigeni pescano. Contaminata è l’acqua con cui irrigano gli orti.
E l’evidenza è confermata dai dati, che ci espone sempre Chaves: “in questa terra le persone che si ammalano di cancro sono il 150% in più della media nazionale, i morti per cancro accertati sono oltre cinquecento, le persone ammalate migliaia, così come è alto il tasso dei bambini nati con malformazioni”.
Ma qualcosa ha cominciato a muoversi. Prima dal basso, con un gruppo di organizzazioni di base e di comunità amazzoniche che si sono unite nel Frente de defensa de la Amazonia. Una class action sostenuta da 30 mila indigeni delle comunità dei Siona, Secoya, Cofan, Huaorani e Kichwa che si sono costituiti parte civile contro la multinazionale
e che nel 1993, presso la corte federale di New York, hanno accusato la Texaco di aver contaminato l’ambiente e messo a rischio la salute della popolazione a causa delle tecnologie obsolete e scadenti usate durante le operazioni di estrazione in Ecuador.
Poi anche dall’alto, con la nuova Costituzione dell’Ecuador che, all’articolo 86, attribuisce allo Stato la protezione del diritto della popolazione a vivere in un ambiente sano ed in equilibrio ecologico. Uno Stato che si impegna in uno sviluppo sostenibile, nella tutela della natura, nella prevenzione dell’inquinamento ambientale, nella conservazione della biodiversità.
E finalmente arriva la notizia: a metà febbraio la corte ecuadoriana incaricata di portare avanti il giudizio per danni ambientali contro la multinazionale petrolifera Chevron ha condannato l’impresa al pagamento di oltre 8 miliardi di dollari per danno ambientale.
Secondo le parti lese, la somma riconosciuta è piuttosto bassa considerata l’entità della devastazione e le stime economiche per la sua riparazione. La richiesta, infatti, nel processo era di 27 miliardi, calcolati sulla base dei costi necessari alla riparazione dei territori danneggiati ed agli indennizzi per le comunità per gli effetti dannosi sulla salute.
La Chevron ha subito informato che proporrà appello contro la sentenza e forse la cifra diminuirà ulteriormente, ma la condanna in sé è molto significativa: è la prima volta nel mondo che un gruppo di cittadini poveri mette una potente multinazionale di fronte alle proprie responsabilità.
Come ci dice Bepi Tonello, che con il Fondo Ecuatoriano Populorum Progressio ha appoggiato il Frente de defensa de la Amazonia fin dalla sua costituzione “questa è una dimostrazione di ciò che può ottenere il popolo quando si organizza”. Il FEPP continuerà ad appoggiare questa rivendicazione popolare. E anche noi.