Pur attento ad evitare ogni contatto prolungato con la rutilante banalità della campagna elettorale fatta di slogan e diffuse cialtronerie, da cittadino assai preoccupato del futuro del mio Paese e dei miei figli, non riesco ad astenermi dal tentativo di configurare a me stesso come sarà l?Italia nel prossimo futuro, ad esito delle elezioni e?.. in vista delle successive.
E per farlo, questo tentativo, al riparo dalle orticarie intellettuali che la campagna elettorale provoca ad ogni italiano di anche solo media cultura, mi affido ad una rilettura di quell?analisi dell?antropologia collettiva italiana che faceva De Rita (41° Rapporto Annuale del Censis, 2007) solo qualche mese fa (mi si perdoni lunga citazione ? che tenterò di abbreviare con un solo abusivo omissis ? ma la amara lucidità del testo mi ha molto colpito, come sempre, anche nel linguaggio che qua e là non mi asterrò dunque dal sottolineare):
In questa situazione strutturale non può sorprendere quella sensazione di continua inclinazione al peggio che attraversa quotidianamente l?opinione degli italiani, indotta e supportata anche da contenuti e toni della comunicazione di massa.
Dovunque si giri il guardo – sembra pensare l?italiano medio ? facciamo esperienza e conoscenza del peggio:??..(omissis)?.. E? abituale allora ricavarne che viviamo una disarmante esperienza del peggio. Settore per settore ?nulla ci è risparmiato? , tant?è che vincono sull?antropologia collettiva i fattori regressivi, anche se non avvertiti in modo sempre cosciente:
– vince una diffusa povertà psicologica, perché la dispersione del sé rende labile l?approccio individuale a ogni fenomeno sociale e a ogni relazione interpersonale;
– vincono quindi le pulsioni in genere frammentanti e non le passioni, tendenzialmente unificanti; e tanto meno, vincono gli atteggiamenti razionali, come è possibile constatare guardando in controluce le vicende meno esaltanti degli ultimi tempi;
– se vincono le pulsioni, tracima senza argine la rincorsa alle presenze, quasi a far coincidere la pulsione, anche la più stralunata, di presenza con l?unica esistenza desiderabile;
– la coazione alla presenza porta a quel primato dell?emozione esternata dell?esperienza che diventa piece mediatica, dell?insistenza febbrile, della riproposizione anche drammatizzata che, sotto sotto, produce sciupìo, in un masochismo ansiogeno. Così il rito della vuota presenza consuma le radici stesse dell?esistenza;
– l?incessante attività comunicativa, giuocata sulla comune strategia di rispecchiare emozioni e drammatizzazioni del proprio pubblico, induce a una monotonia dei messaggi e del linguaggio e restringe la pluralità dei codici comunicativi. Il mondo diventa null?altro che la sua rappresentazione: ci si adatta a vivere in un nirvana virtuale ma fragoroso (forse per dimenticare noia e sonnolenza);
– se è così, non è peregrina l?emersione di nuove malattie dell?anima, direbbe qualcuno. Finisce comunque in secondo piano l?intenzionalità anche individuale e specialmente quella sociale e politica. Le intenzioni più ambiziose, poi, finiscono per arroccarsi nella speranza di non regredire e sparire.
La campagna elettorale, durante la quale si dovrebbero supporre rassegnate ai cittadini le migliori speranze del Paese (e, dico io, le condizioni per conseguirle) e i più entusiasmanti disegni di cambiamento e di progressiva innovazione (nonché, dico io, i sacrifici che costa la loro realizzazione), si sottrae a questa ?disarmante esperienza del peggio??
Mi pare proprio di no, almeno nella quasi totalità delle proposizioni; anzi, mi pare che i protagonisti della contesa, per lo più, si orientino a fare leva proprio su quella cultura dell?emozione che sembra oggi pervadere ogni identità (o appartenenza) ma che forse, da sempre, ha costituito l?eredità e il vincolo del nostro essere Italiani: basti pensare alle imbarazzanti alchimie dei posizionamenti a destra e a sinistra ( ?andiamo da soli? ma anche apparentati, litighiamo con l?UDC ma in Sicilia andiamo insieme, etc) o anche alle scelte di candidature tutte focalizzate sull?emozione che forse possono suscitare (dagli operai della Thyssen alla giovane neolaureata, etc): dei contenuti che queste scelte dovrebbero (dico: dovrebbero) sottendere, nulla; ciò che importa è solo catturare le emozioni che,poi, però, innervano scelte di tipo ideologico dalle quali deriva la sostanziale stabilità dell?elettorato e, dunque, il rischio di pratica inutilità di ogni votazione.
Forse siamo e siamo sempre stati un Paese troppo emotivo, facile agli entusiasmi (mi vengono in mente, con un brivido, le acclamazioni nei momenti delle ?scelte irrevocabili? ) come alle depressioni (mi viene in mente la cappa di piombo che sembrò addensarsi sul Paese ai tempi del terrorismo), amante dello stesso spettacolo delle emozioni (basta sintonizzarsi, per poco tempo, per carità!, sui canali delle TV generaliste) ed incline alle faziosità emotive (da Coppi e Bartali a Rivera e Mazzola, dalle rivalità contradaiole alle stupidaggini Roma/ Milano, etc).
Si dirà che una forte emotività è anche il presupposto di tante vigorose generosità (gli angeli del fango di Firenze, per tutti, fra i tanti esempi che pure abbiamo dato a noi stessi) o anche di affascinanti creatività (dall?opera alla canzone napoletana, ai molti altri casi, anche più raffinati, di espressione dei sentimenti).
Ma ciò non toglie che con la cultura dell?emozione non si governano fermamente e drittamente le sorti di un Paese in un periodo difficile, in un contesto sfidante, con sulle spalle il fardello di tanti conti rinviati. Se ciò è vero (e, purtroppo per noi, lo è! ) non può non scandalizzare il fatto che i maggiori candidati alla corsa elettorale in atto abbiano fatto a gara nell?affastellare montagne di costose promesse sprovviste dell?indicazione dei costi e delle fonti di copertura (si veda Il Sole 24 ore del 2 marzo 2008) con l?evidente intento di suscitare attese delle quali non possono ignorare l?inconsistenza; altri abbiano addirittura basato il senso di una loro rappresentanza politica su un tema senz?altro nobile e serio (la moratoria sull?aborto) ma assolutamente laterale rispetto all?entità dei problemi che dobbiamo affrontare ed ai rischi che corriamo nel non affrontarli con i metodi giusti, nulla lasciando intendere sul resto della loro visione del mondo (e delle cose da fare) e forti solo dell?emozione che intendono suscitare; altri abbiano lungamente rumoreggiato di problemi di candidature e di seggi sicuri, minacciando manifestazioni altamente emotive del tutto sproporzionate alla ragione delle loro lagnanze; e così via, all?insegna della fiera delle banalità: più pane, meno lavoro, pensioni più alte, meno tasse, più sicurezza, più efficienza, meno sprechi, più investimenti, meno debiti, più incentivi ai giovani, migliore sanità, minore burocrazia, più divertimento, meno tristezza, più sole, meno pioggia.
Ma forse c?è una ragione in tutto ciò: nella fiera delle banalità tutto si appiattirebbe, perché tutti vogliono più o meno le stesse cose che peraltro non sanno (non vogliono dire) come conseguire; allora tanto meglio diversificarsi con le emozioni che ciascuno è capace di suscitare fingendo di proporre o più libertà o più speranza, sempre tacendone le implicazioni, dell?una e dell?altra: fatica, regole, disciplina, impegno, sacrificio del presente per il futuro.