Nessuno analista politico realista pensava che la cosiddetta guerra di liberazione dell?Iraq sarebbe stata breve, indolore e soprattutto condivisa dalla maggioranza del popolo iracheno e dalla più grande opinione pubblica internazionale musulmana e non.
Il grido di vittoria del Presidente Bush, ?Mission Accomplished?, continua a sottolineare lo iato fra la vera liberazione di uno stato dalla tirannia e la sua transizione verso modelli democratici e di rispetto dei diritti fondamentali e un modo, culturalmente arrogante e strategicamente improduttivo, di esportazione della democrazia, come se si trattasse di qualsiasi altro bene di consumo.
Nonostante tutto ciò, pochi sono stati in grado di predire che alle tragedie di un conflitto e della guerriglia senza quartiere e senza regole, si potessero aggiungere nuovi orrori capaci di sfuggire qualsiasi considerazione politica e umana.
Le foto delle torture inflitte a prigionieri iracheni detenuti nelle carceri continuano a riempire le prime pagine degli organi di informazione e per molti, oggi, è difficile considerare queste ultime rivelazioni come un effetto collaterale dell?esportazione di democrazia. Le sortite mediatiche del Presidente dello Stato che dei diritti e delle libertà fondamentali si fregia di essere il portabandiera, sono poco più che palliativi per una classe politica araba ormai diplomaticamente scettica e un?opinione pubblica sempre più ostile. Blande scuse e promesse di punizione per i colpevoli. E? forse questo il passaggio più importante del messaggio di Bush agli iracheni; quasi che si trattasse di un regolamento di conti interno, una sanzione disciplinare alla trasgressione di un codice privato, un incidente di percorso, un effetto collaterale, appunto.
Al contrario, non sembra trattarsi di incidente occasionale, perché questa appare sempre più chiaramente essere l?ombra lunga di una scelta di unilateralità della gestione della crisi sin dal suo inizio. L?atteggiamento sdegnoso di rifiuto per la collaborazione delle Nazioni Unite, antidoto e rimedio al tempo stesso di ogni tentazione di scivolamento verso eccessi unilateralistici, si ritorce oggi verso una potenza sola; perché da sola è costretta a gestire una crisi completamente interna. Una crisi, tuttavia, che non coglie di sorpresa; una crisi che uno scrittore americano come Gore Vidal, già paventava, prima dell?11 settembre, dopo gli attacchi governativi contro la setta dei Davidiani a Waco, e che, dopo le Torri Gemelle, priva gli ostaggi di Guantanamo dei diritti fondamentali dell’uomo e del prigioniero. E?, in sostanza, la sospensione, nella democratica America, e a maggior ragione nelle terre diventate di nessuno, di quel ?Bill of Rights? del 1791 su cui si fonda la tutela delle libertà fondamentali del popolo americano e della moderna civiltà giuridica occidentale. ?Una volta alienato? sostiene Vidal ne ?La Fine delle Libertà? ?un diritto inalienabile può essere perso per sempre, nel qual caso non saremmo più [gli Stati Uniti] nemmeno lontanamente, l?ultima e migliore speranza della terra ma solo uno squallido stato imperiale la cui maggiore preoccupazione è tenere a bada i suoi cittadini il cui stile di morte e non di vita viene imitato da tutti?.
Errore di gestione o errore di strategia è lecito domandarsi? Cosa resta al di là della semplice brutalità delle torture? L?espressione di una delle tante frustrazioni irrisolte, oggi come nel passato, del soldato al fronte o una opacità di progettualità politica, di reale volontà di pacificazione in nome di una sicurezza globale, che non ha saputo spiegare appieno a se stessa e al popolo iracheno il mandato affidatole in nome della democrazia e della pace?
Se lo domanda un?America attonita e ondivaga nei sondaggi all?approssimarsi delle elezioni presidenziali. Se lo chiede un?Europa politicamente divisa e inadeguata, concentrata sulla propria crescita economica e incapace di riconoscere nei fondamentalismi altrui le proprie divisioni. Messa da parte il diritto chi darà voce e cuore alla democrazia globale del XXI secolo?
Analisi della brutalità della gestione dei detenuti iracheni in nome della democrazia