Forse non tutti sanno che le stragi di Capaci e di via D’Amelio nel 1992, in cui morirono i giudici Falcone e Borsellino, rappresentano per la giurisprudenza il fondamento storico della legge del 7 marzo 1996: Disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati.
Tale legge di cui si sente molto parlare in questo periodo nel mondo delle associazioni nacque dalla forte volontà della società civile di reagire e lottare contro la mafia, dopo il duro colpo che inflisse alle coscienze degli Italiani, uccidendo i due giudici, pilastri della lotta alla mafia.
La voglia di gridare il proprio no, il bisogno di combattere la mafia e la profonda ferita aperta dal lutto subito crearono una nuova “cultura della legalità” e il desiderio di trovare modelli di lotta alternativi.
“Vogliamo che lo Stato sequestri e confischi tutti i beni di provenienza illecita, da quelli dei mafiosi a quelli dei corrotti. Vogliamo che i beni confiscati siano rapidamente conferiti, attraverso lo Stato e i Comuni, alla collettività per creare lavoro, scuole, servizi, sicurezza e lotta al disagio”.
Così iniziava la petizione popolare che, nel 1995, l’associazione Libera promosse sulla possibile utilizzazione dei beni confiscati alla mafia su tutto il territorio nazionale.
Il risultato fu la creazione di un collegamento tra le Regioni attraverso la costituzione di reti di relazione che vedevano coinvolte moltissime persone in pochissimo tempo.
Nello stesso momento in Parlamento veniva depositata una proposta di legge sulla gestione e sulla destinazione dei beni sequestrati o confiscati alla mafia.
L’interesse e la mobilitazione dell’opinione pubblica furono talmente alti che in pochissimo tempo la petizione portata avanti da associazioni e cittadini raccolse più di un milione di firme a sostegno della proposta di legge.
L’iter che portò all’approvazione della legge n. 109/96, la conseguente progettualità e l’impegno che ne sono scaturiti rappresentano certamente una delle più significative espressioni di sinergia tra l’agire dello Stato e la volontà e l’impegno della società civile.
Questa legge può essere giustamente considerata uno strumento importante per la lotta alla criminalità organizzata. Partendo dal presupposto che la lotta alla mafia debba passare attraverso l’attacco al capitale economico dell’organizzazione, in quanto fondamento dell’esercizio del potere mafioso.
La legge 109/96 si inserisce in una strategia di profondo significato simbolico, perchè stabilisce che la destinazione d’uso dei beni confiscati debba essere sociale e istituzionale. In tal modo si cerca di proporre e affermare sul territorio il modello della legalità che passa attraverso il riutilizzo di beni che rappresentavano tutt’altro.
La confisca del bene è un’operazione complessa per le implicazioni non solo politiche ma anche culturali ed economiche, e per questo assume un valore simbolico non indifferente, in quanto persegue l’obiettivo di minare la coesione interna dei gruppi mafiosi e al tempo stesso a far vacillare la base di consenso che questi esercitano sul territorio.
L’attacco alla mafia, per mezzo del suo impoverimento economico, rappresenta il fulcro della strategia adottata dallo Stato. Pertanto la legge sui beni confiscati riveste un alto valore politico, in quanto rende visibile l’azione dello Stato e contribuisce a contrastare l’economia illegale e a diffondere una cultura della legalità. Tale valore è strettamente collegato da un lato al percorso che ha portato alla nascita della legge e delle reti di partecipazione civica che essa ha generato, dall’altro al valore in termini di finalità e destinazione collettiva che lo Stato ha conferito all’utilizzazione di questi beni.
Gli obiettivi che si vogliono raggiungere si intrecciano con il recupero sociale e la diffusione della cultura della legalità.
I beni confiscati diventano espressione di democrazia e di impegno istituzionale e collettivo.
Rompere il legame tra mafia e denaro illecitamente accumulato significa riappropriarsi delle risorse che sono state sottratte alla collettività attraverso il loro uso illegale, creando processi di sviluppo sul territorio che partano dal concetto di utilizzo di un bene comune secondo percorsi di legalità.