? Quali sono i fattori che possono favorire l?integrazione dei migranti nei paesi di accoglienza?

L?integrazione dei migranti nei paesi di accoglienza può essere favorita da diversi fattori. Il primo è il fattore legislativo, perché una normativa più favorevole agli stranieri, più aperta, più flessibile, può mettere i cittadini stranieri maggiormente a loro agio e facilitare di molto il loro inserimento. Una buona normativa dimostra che la classe politica è riuscita ad inquadrare posi-tivamente un fenomeno societario ed ha dunque una grande importanza. Complessivamente da noi in Italia, essendo la normativa di data più recente rispetto ad altri paesi europei (la prima legge è del 1986), non si può dire che sia ostile agli stranieri, perché l?Europa nel frattempo è diventata in media più severa. Detto questo, però, va anche rilevato che esistevano delle lacune già nella fase iniziale e altre ne sono emerse col tempo: purtroppo il legislatore non ha avuto l?accortezza, essendo troppo diviso al suo interno, di riprendere e di regolare la materia in ma-niera più soddisfacente. Inoltre si tratta di una normativa priva di una vera visione strategica e dunque, pur non essendo del tutto negativa, non è neppure adeguata.

Un secondo fattore è quello delle organizzazioni sociali: da questo punto di vista, in base alla mia esperienza, l?Italia può contare su una grande ricchezza. Da noi la Chiesa, a parte qualche raro esempio di posizione non condivisibile, è stata un grande fattore di apertura all?accoglienza a prescindere dal luogo di origine e anche dalla religione di appartenenza dei nuovi arrivati. I sindacati, che non in tutti i paesi europei si sono mostrati disposti ad accogliere i flussi migrato-ri, in Italia hanno svolto un ruolo positivo. Nella prima fase hanno addirittura agito come orga-nizzazioni sociali, facendosi carico di tanti servizi, anche al di là del loro ruolo specifico. At-tualmente continuano a svolgere un ruolo importante per l?immigrazione perché sono impegnati a formare una leadership di immigrati, in modo che i lavoratori non abbiano come riferimenti solo cittadini italiani, ma anche cittadini immigrati. Inoltre si è verificata una vera e propria fio-ritura di associazioni di solidarietà, organizzazioni ecclesiali, forse preponderanti, ma anche di estrazione laica. Se le associazioni sono l?espressione del popolo italiano, si può affermare che il popolo italiano ha sentito il dovere della solidarietà con gli immigrati. Questo si è trasformato in un rivolo di mille interventi, che hanno supplito anche alle carenze legislative e alle carenze amministrative. Una specificità italiana è proprio la ricchezza sociale, che ha funzionato come un equilibratore, che ha permesso di sopperire a carenze di altro genere.

Per quanto riguarda l?amministrazione, pur non essendo né giusto né opportuno sottoporla a un giudizio sommario, non può nemmeno essere assolta con un giudizio pienamente positivo. Pur-troppo l?amministrazione, la burocrazia, le leadership degli enti locali, in Italia restano un gran-de problema, forse perché noi riusciamo a rendere complicate le cose semplici, a mettere anche i cittadini italiani, ma specialmente i cittadini stranieri, di fronte a grosse difficoltà. Per chi viene da un altro paese, da un?altra storia, un?altra lingua, un?altra cultura, un?altra religione, ed è dunque in qualche misura spaesato in un contesto estraneo, la burocrazia può facilmente diven-tare un fenomeno vessatorio. È solo colpa degli amministratori? Certamente no. Dobbiamo con-siderare, ad esempio, che noi non abbiamo grande tradizione amministrativa come altri paesi. Però bisogna anche dire che molte volte si fanno leggi senza preoccuparsi del loro risvolto am-ministrativo: questo è certamente il caso per l?immigrazione. Le leggi vigenti prevedono la ripe-tizione di adempimenti a distanze molto ravvicinate, anche se è noto che l?amministrazione non è in grado di sopportare una simile mole di lavoro. Così passano mesi, qualche volta anche anni, e le persone restano in una sorta di limbo: questo è un disastro veramente italiano. Se dunque in positivo va sottolineata la ricchezza sociale che c?è in Italia, in negativo è giusto evidenziare questa vessazione di natura burocratica, che in Italia siamo ben lontani dall?avere superato.

Infine un fattore più specifico, anche se connesso ai precedenti, è la cattiva concezione del con-cetto di alternanza. Sembra quasi che, per una sorta di diritto indiscutibile, uno che vince le ele-zioni comunali, le elezioni provinciali, le elezioni regionali, o le elezioni politiche, abbia il dirit-to di cambiare a suo piacimento le misure in materia di immigrazione. Questo è un costume dannosissimo, perché l?immigrazione non è un fenomeno che riguarda i politici, ma un fenome-no societario, nei confronti del quale i politici dovrebbero essere attenti e rispettosi. Così, poi-ché si cambia troppo, alla fine non si riesce a fare una strategia di lunga durata, impostata sulle necessità del fenomeno che si deve affrontare, e che sappia prevedere dei percorsi articolati e solidi. Ad esempio, è molto raro che i progetti siano pluriennali: però le strategie sociali, le stra-tegie culturali, le strategie formative sono strategie di lunga leva e dunque i progetti annuali non risultano granché efficaci. Il giudizio e il controllo sui progetti presentati è logico e comprensi-bile, ma quando si è lavorato seriamente a qualcosa, magari investendoci risorse, è un vero pec-cato che dopo un anno tutto finisca. Questo dipende molto dalla logica dell?alternanza: noi ci siamo sempre preoccupati del particolare, non abbiamo un visione di lunga durata, e questo ci danneggia ed è sicuramente un difetto enorme del sistema italiano. Anche l?articolazione regio-nale qualche volta è un ostacolo: di per sé è positiva, perché permette di essere più vicino alle popolazioni locali, ma quando le regioni non dialogano tra di loro vengono a mancare delle li-nee alle quali riferirsi su tutto il territorio nazionale. Se questo poi è accompagnato da disatten-zioni a livello nazionale, perché i politici non stati in grado di fissare almeno direttive di massi-ma, lasciando poi alle regioni le applicazioni, si arriva al caos. Il quadro complessivo non è di-sastroso, ma sarebbe ingiusto assolvere tutto ciò che avviene in Italia. Sono molte le questioni che noi dovremmo rivedere, perché se siamo destinati a diventare forse il più grande paese di immigrazione in Europa, allora dobbiamo renderci conto che non abbiamo una politica specifi-ca, né un?amministrazione all?altezza di questo compito.

? Che ruolo gioca in questo ambito la formazione?

Il ruolo della formazione come fattore di integrazione dovrebbe essere ben diverso da quello at-tuale. Per quello che ho ricavato dalla mia esperienza e per quello che uno può apprendere dal confronto con le esperienze di altri impegnati più direttamente di me in questo settore, i risultati non sono affatto soddisfacenti. La formazione è una cosa molto seria e purtroppo, specialmente nel settore della formazione professionale, si deve rilevare che molti corsi, anche lautamente fi-nanziati con i fondi europei, non sono molto appropriati all?obiettivo che si propongono. Nell?approssimazione che a volte caratterizza queste esperienze, spesso non si tiene conto della preparazione di partenza della persona da formare, oppure si perde di vista l?obiettivo specifico che si vuole raggiungere. I corsi dovrebbero essere veloci e molto efficaci, utili a raggiungere lo scopo. Purtroppo molte volte si ha l?impressione che i fondi della formazione abbiano la funzio-ne principale di sostenere le organizzazioni che operano in questo settore. Bisognerebbe arrivare a un sistema di valutazione efficace, in modo da evidenziare in che percentuale le persone che sono state formate per determinate funzioni siano effettivamente riuscite ad inserirsi nel mercato del lavoro. È indispensabile che ci siano rapporti molto stretti tra enti di formazione e mondo del lavoro. Quindi la nostra formazione non va assolta e probabilmente bisognerebbe vedere in quale maniera le regioni si possano accordare per definire linee comuni. Non dovrebbe esserci il rischio, ad esempio, di non vedersi riconosciuto un corso di formazione solo perché è stato fre-quentato in una regione diversa da quella di residenza. Tutte queste differenze e ostacoli lascia-no perplessi: innanzitutto ci dovrebbe essere uniformità all?interno di ogni Regione e poi le re-gioni devono lavorare insieme, altrimenti gli sprechi saranno sempre moltissimi. Nella forma-zione si investono già molte risorse, ma al momento continua ad essere fatta in modo disorgani-co e troppo spesso non si premia la qualità e neppure l?efficacia effettiva.

? In che modo la formazione professionale rappresenta una risorsa per la co-struzione di un modello di integrazione?

La formazione dovrebbe essere molto collegata all?analisi della società: chi dirige un ente di formazione non deve solo conoscere il bando del concorso, ma anche il rapporto tra la società italiana e l?immigrazione. Il punto di partenza dovrebbe essere l?analisi delle carenze della so-cietà italiana e una buona conoscenza diretta delle persone che arrivano da noi e delle potenzia-lità di ciascuno. A partire da questo, si devono creare percorsi formativi che siano davvero ri-spondenti alle esigenze del mondo aziendale. Da questo nascono le idee, che a volte possono anche essere ripetizioni di cose ottime fatte nel passato ? sarebbe un errore ritenere che tutto debba partire necessariamente da zero – ma che necessitano sempre di alcuni elementi innovati-vi, proprio perché la società cambia, l?immigrazione cambia, il mondo lavorativo cambia. Gli enti di formazione dovrebbero essere soprattutto attenti a formare nuove professionalità, che di per sé dovrebbero trovare un immediato sbocco, proprio perché rispondono a bisogni ancora non soddisfatti. La formazione così intesa aiuterebbe davvero a costruire la società.