In questi giorni, a chi analizza gli effetti dirompenti della congiuntura economico-finanziaria mondiale può accadere di evocare il parallelo storico che sembra più pertinente e insieme più minaccioso: la Grande crisi del 1929. Il richiamo viene fatto fuggevolmente, a fini più esorcistici che descrittivi e col timore inconfessato che quello spettro possa nuovamente prendere vita e insediarsi in mezzo a noi con tutta la violenza di cui già una volta è stato capace. La riottosità con cui si affronta il tema è ampiamente motivata: quella crisi, oltre a determinare i terribili effetti economico-sociali che ben conosciamo, ebbe conseguenze politiche talmente incandescenti da farci recalcitrare di fronte anche alla sola ipotesi di un loro riprodursi. L’intreccio tra congiuntura economica, crisi dei sistemi produttivi e disoccupazione di massa; il diffondersi di movimenti populisti e reazionari e, infine, il loro sbocco in regimi totalitari restano un fardello pesante e, in qualche modo, un tabù della coscienza pubblica del XX secolo. E, invece, è fondamentale saper cogliere le tracce, anche labili e contraddittorie, di tendenze culturali e politiche già emerse nel secolo scorso e che, pur senza costituire oggi fenomeno di massa, rivelano umori e orientamenti, pulsioni e sentimenti in grado di rappresentare un pericolo. Un pericolo per chi? innanzitutto per la convivenza civile, per la tenuta del legame sociale, per lo sviluppo di relazioni e scambi, non segnati permanentemente dalla reciproca ostilità. Una volta per tutte, va ribadito che il fascismo non è alla porte (ma chi ha mai detto una simile scemenza?) e che l’Italia non è un Paese razzista (ma chi ha mai detto una simile scemenza?): e tuttavia ciò non significa che il diffondersi di parole e gesti inequivocabilmente fascisti e razzisti, ancorché limitati ad ambiti periferici e a minoranze esigue, debba essere ignorato o sottovalutato. Sono segnali, appunto: non più che segnali, ma non meno che segnali. Come tali, vanno tenuti sotto osservazione. Quei segnali dicono, in primo luogo, che la globalizzazione non ha avuto solo i suoi fan entusiasti (negli ambienti liberali e liberisti, nelle organizzazioni multinazionali, nei ceti affluenti delle democrazie economiche) e i suoi critici radicali (nei movimenti di sinistra ostili a uno sviluppo capitalistico più potente dei vincoli di natura sociale e morale che si tentava di porre). La resistenza più tenace alla globalizzazione si è sedimentata nei luoghi dove le comunità tradizionali, i loro stili di vita e le loro concezioni del mondo si sentivano maggiormente minacciate da una mondializzazione che appariva dirompente in termini tanto economici quanto culturali. Per capirci: sul piano della concorrenza tra prodotti autoctoni e prodotti importati cosi come su quello del conflitto tra forme di vita e di organizzazione consolidate nei secoli e nuovi insediamenti. E lì, in quei sistemi di rapporti dove irrompono il mercato internazionale, la forza lavoro straniera e le comunità immigrate, che la resistenza diventa autosufficienza ed esclusione. Informe assai diverse ci può accadere in un distretto industriale attraversato dalla crisi del sistema produttivo fordista o in un territorio disfatto dal crollo di regimi politici dispotici e dalla disgregazione delle comunità che vi avevano trovato tutela. Nell’uno come nell’altro la sola via di salvezza sembra essere la restaurazione di una tradizione, autentica o inventata, che possa dare una qualche forma di sicurezza e garantire una qualche forma di integrazione. Quella tradizione può risalire nel tempo fino a epoche gloriose – ancora una volta autentiche o inventate – capaci di assicurare radici illustri (i celti ma anche i Borboni) e orgoglio identitario; oppure quella tradizione, può richiamare più recenti periodi storici di ferro e di fuoco (i fascismi, ma anche i comunismi nazionali), dove l’asprezza del combattimento e la temibilità del nemico attribuiscono un’appartenenza immediatamente riconoscibile.
Qualcosa del genere è accaduto alcune settimane fa a Sofia durante una partita di calcio quando, in un parossistico gioco di specchi, ultrà italiani e ultrà bulgari si sono indirizzati contro, vicendevolmente, croci celtiche e simboli nazisti, slogan feroci e gesti del passato regime (comunista) contro slogan feroci e gesti del passato regime (fascista). Gli uni e gli altri brandivano l’armamentario più schiettamente reazionario della difesa dell’identità minacciata, dell’esaltazione dell’ordine e della gerarchia, della celebrazione dell’eroismo bellico. Ma, con un arsenale ideologico e simbolico tutt’affatto diverso, nelle mobilitazioni anti-immigrazione dell’Europa occidentale e di quella orientale ritornano le medesime categorie: la plumbea difesa delle comunità e delle microcomunità, l’autarchia economica contro la libera circolazione di uomini e merci, l’enfasi torva sui valori tradizionali di Dio (cristiano), Patria (grande o piccola) e Famiglia (patriarcale, monogamica, eterosessuale). Tutto ciò non è il fascismo e nemmeno automaticamente il razzismo. Ma preoccupa che a quelle tendenze xenofobe (e antieuropee e antidemocratiche) sono in molti a offrire legittimazione: si pensi a quanti – negli ambienti del cattolicesimo moderato e perfino in quelli di una certa destra liberale, oggi al governo in Italia e non solo – hanno fatto di Dio Patria Famiglia’ una parola d’ordine d’uso corrente. Non solo: il fatto che l’intero apparato culturale (ceto politico e intellettuale e mezzi di comunicazione) della destra italiana – con la sola eccezione di Gianfranco Fini – si mobiliti al solo scopo di negare che l’Italia sia un Paese razzista (affermazione insensata) finisce col banalizzare gli episodi di razzismo (fatti reali).
Infine, la crisi economico-finanziaria rischia di alimentare la produzione di scenari e interpretazioni di natura geo-politico-speculativa. Quanto accade nelle Borse di tutto il mondo si presta magnificamente a una lettura in chiave di colpevolizzazione di una responsabilità demo-pluto-giudaica , che si nutre di spiegazioni tanto semplificate quanto suggestive come la contrapposizione tra periferia e centro, tra produzione e rendita, tra lavoro e speculazione, tra popolo e lobby. Come si vede, siamo a un passo da una classica rappresentazione populistica, propria della polemica antidemocratica nell’Europa tra le due guerre. Ora, guai a confondere la sacrosanta critica del mercatismo con l’accusa alle lobby ebraiche e alle tecnocrazie massoniche; ma guai anche ad assecondare le tendenze populistiche e pre-democratiche che si indirizzano contro il primo così come contro le seconde. E ancora: è un errore sottovalutare gli effetti nefasti che la globalizzazione può avere sulle comunità territoriali e sulle identità locali: ma la Tradizione che le dovrebbe tutelare è, nella gran parte dei casi, o mera costruzione letteraria o involucro di processi d’impoverimento e di disgregazione che hanno tutt’altra origine. Oggi quella Tradizione, comunque la si proponga, si presenta come istanza autoritaria e discriminatoria. Ancora una volta: non è in alcun modo il fascismo (nemmeno per sogno), ma è una trama di suggestioni e pregiudizi, di nostalgie e frustrazioni, di stereotipi e rancori che alimenta le volontà di rivalsa e le rivendicazioni d’identità e fa assumere loro linguaggio e gestualità propri della ritualità dei regimi totalitari. Linguaggio e gestualità apparentati, più o meno alla lontana (talvolta in stretta prossimità), al fascismo. C’è da preoccuparsi? Si, e non solo perché ma che figura facciamo all’estero: anche perché quel linguaggio e quella gestualità (e gli atti e i movimenti che li adottano) non sono innocui né ininfluenti. Lasciano il segno, eccome, condizionano profondamente il senso comune, intaccano – ma possono arrivare fino a minare – quel poco o tanto di coscienza pubblica e di cultura condivisa che tiene insieme una società democratica degna di questo nome.
Sole 24 Ore di martedì 28 ottobre 2008 , pagina 24