Quando l’uomo scoprì che il cavallo poteva essere addomesticato ed utilizzato per trascinare carichi o per portare sul dorso un cavaliere, le sue capacità di lavorare e di correre crebbero enormemente: si poteva attaccare il cavallo all’aratro e risparmiare fatica facendo più solchi nell’unità di misura del lavoro; oppure si poteva salire su un cavallo e far correre questo invece di stancarsi a correre a piedi; si potevano fare percorsi più lunghi senza stancarsi; si poteva sonnecchiare su un cavallo, come facevano i cow-boys di certi film western, mentre questo camminava per noi; si potevano attaccare carrozze al cavallo e riposare al riparo del sole o del vento, mentre il cavallo o i cavalli ci portavano di corsa da un luogo ad un altro. Insomma, ben presto si comprese che il cavallo poteva diventare una grande leva del progresso economico. E di fatto lo fu per lunghissimo tempo, fino a poco più di un secolo fa. Poi arrivarono il treno, l’automobile, l’aereo e così via.


Ciò che ha fatto la grandezza di tutti questi mezzi è stata l’intelligenza dell’uomo che ne ha colto la strumentalità e l’ha adattata alle sue scelte: così il cavallo ha potuto di volta in volta servire ad attenuare la fatica del lavoro ma anche a potenziare le capacità aggressive dell’uomo; chi non ha mai visto, al meno al cinema, la potenza distruttiva di una carica di cavalleria? Certo alcune volte col sollievo di poter gridare “arrivano i nostri!” ma altre volte col timore suscitato da una carica di pellerossa o da un’incursione di barbari. Eppure il cavallo, equus equus, era più o meno sempre lo stesso, un ammasso di muscoli potenti e quasi instancabili al servizio dell’uomo che lo cavalcava o che lo guidava con la frusta. E se gli uomini che lo guidavano o lo cavalcavano, magari nei film della nostra giovinezza, erano i “buoni” o i “cattivi” della storia, non ho mai sentito nessuno inveire contro i cavalli dei “cattivi” ed osannare i cavalli dei “buoni”. Chi faceva i buoni dei buoni e i cattivi dei cattivi, non era il cavallo ma il cavaliere.


Questa lunga metafora, che forse vi ha stancato, serve solo per aiutarci a cogliere il senso di una corrente contraddizione: quando l’ambiente economico sembra deteriorarsi improvvisamente, subito insorgono i nuovi nemici del cavallo, i profeti dell’antimercato: tutte le colpe allora ricadono sul mercato, sui suoi mali intrinseci, sulla sua diabolica natura. Ma il mercato è solo il cavallo dell’economia, nient’altro che il cavallo, i cavalieri buoni o cattivi siamo noi, che ci stiamo sopra o che ne siamo tratti. E quando l’insurrezione contro il cavallo dilaga, la memoria si fa corta: nessuno si ricorda più dei solchi che ha tracciato e della fatica che ci ha risparmiato. Per esempio, chi si è fermato a riflettere, nella bufera della crisi che attanaglia il mondo dalla fine del 2008, a quanta parte del mondo è uscita dalla povertà anche grazie a questo modo di funzionare dell’economia, grazie a questo cavallo che è stato per noi tutti il marcato? Può sembrare strano parlare di prosperità crescente quando ci sono ancora centinaia di milioni di persone che vivono in condizioni di disperata povertà ma forse in nessun altro periodo della storia i progressi, sul piano della diffusione del benessere economico, sono stati così ampi e così rapidi come quelli che si sono verificati negli ultimi 25 anni: la quota di popolazione mondiale che vive con meno di un dollaro al giorno è precipitata dal 40% al 18% fra l’81 e il 2004 e, secondo le previsioni, dovrebbe scendere al 12% entro il 2015; la Cina ha visto uscire dalla povertà qualcosa come 400 milioni di suoi cittadini; la povertà sta cadendo nell’80% dei Paesi del mondo; in circa 150 Paesi, fra i quali Cina,India, Brasile, Indonesia, Kenya, Sud Africa, i poveri stanno per essere progressivamente assorbiti all’interno di economie crescenti e produttive.


E ciò rimane vero quand’anche si consideri che tantissimo c’è da fare, ancora e purtroppo.


Alla stessa sorte del cavallo-mercato è soggiaciuto il cavallo-globalizzazione, che spesso è proprio attaccato alla stessa carrozza del primo. Qui,poi, i nemici del cavallo hanno anche provato a costruire tesi utili a supportare becere visioni del mondo, secondo le quali chi sta bene deve badare solo a starci più a lungo possibile e chi sta male non deve uscire dal suo fango.


Con in mente queste considerazioni, confesso di aver affrontato la lettura della Caritas in Veritate con trepidazione, temendo, ingiustamente per questo papa (un uomo di amplissima sensibilità culturale e di profonda attenzione al mondo), che potessero albergarvi equivoci fra cavalli e cavalieri, per dirla abusando della nostra metafora. Del resto non sono lontani, nel tempo, alcuni tuoni della Chiesa contro il treno.
Ebbene, la Caritas in Veritate, giudicata con gli occhi di chi vive nel mercato….senza essere del mercato, fa chiara giustizia di ogni equivoco, basti leggere il capitolo 36 che dice: Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro. Esso trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano. Infatti, l’economia e la finanza, in quanto strumenti, possono esser mal utilizzati quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici. Così si può riuscire a trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi. Ma è la ragione oscurata dell’uomo a produrre queste conseguenze, non lo strumento di per sé stesso. Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l’uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale.


Sarebbe difficile esser più chiari. E lo stesso vale per tanti altri concetti dell’economia moderna dalla globalizzazione (« la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno » (Giovanni Paolo II). Non dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti, procedendo con ragionevolezza, guidati dalla carità e dalla verità. Opporvisi ciecamente sarebbe un atteggiamento sbagliato, preconcetto, che finirebbe per ignorare un processo contrassegnato anche da aspetti positivi, con il rischio di perdere una grande occasione di inserirsi nelle molteplici opportunità di sviluppo da esso offerte. I processi di globalizzazione, adeguatamente concepiti e gestiti, offrono la possibilità di una grande ridistribuzione della ricchezza a livello planetario come in precedenza non era mai avvenuto; se mal gestiti, possono invece far crescere povertà e disuguaglianza, nonché contagiare con una crisi l’intero mondo. Bisogna correggerne le disfunzioni, anche gravi, che introducono nuove divisioni tra i popoli e dentro i popoli e fare in modo che la ridistribuzione della ricchezza non avvenga con una ridistribuzione della povertà o addirittura con una sua accentuazione, come una cattiva gestione della situazione attuale potrebbe farci temere. Per molto tempo si è pensato che i popoli poveri dovessero rimanere ancorati a un prefissato stadio di sviluppo e dovessero accontentarsi della filantropia dei popoli sviluppati. Contro questa mentalità ha preso posizione Paolo VI nella Populorum progressio.) o della delocalizzazione (Non c’è nemmeno motivo di negare che la delocalizzazione, quando comporta investimenti e formazione, possa fare del bene alle popolazioni del Paese che la ospita. Il lavoro e la conoscenza tecnica sono un bisogno universale).


La verità è, lo dice con lapidaria chiarezza la Caritas in Veritate al capitolo 75, che la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica e, per questa via, per i cristiani, questione cristologica (capitolo 78): Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia. Di fronte agli enormi problemi dello sviluppo dei popoli che quasi ci spingono allo sconforto e alla resa, ci viene in aiuto la parola del Signore Gesù Cristo che ci fa consapevoli: « Senza di me non potete far nulla » (Gv 15,5) e c’incoraggia: « Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo » (Mt 28,20). Di fronte alla vastità del lavoro da compiere, siamo sostenuti dalla fede nella presenza di Dio accanto a coloro che si uniscono nel suo nome e lavorano per la giustizia. Paolo VI ci ha ricordato nella Populorum progressio che l’uomo non è in grado di gestire da solo il proprio progresso, perché non può fondare da sé un vero umanesimo.


Purtroppo per un residuo fisso di anticapitalismo (per intenderci: il residuo fisso è quello che resta dell’acqua….dopo la bollitura a 180°!) così tipico di molta cultura cattolica italiana, al solo udire della parola mercato fioccano i segni di croce, come se dovessimo temere il cavallo a prescindere dalla qualità del cavaliere!

La questione dei valori

Recentemente i valori sono tornati di moda; è nato persino un partito che dei suoi cosiddetti valori ha fatto rumorosa bandiera. Noi cattolici non abbiamo mancato al clamore comunicativo inventandoci i valori irrinunciabili (per far capire, forse, che ne esistono di altri rinunciabili).

Nel clamore degli osanna ai valori (quasi mai meglio definiti), non vorrei che facessimo come i farisei per i quali il rispetto del sabato era un valore irrinunciabile, anche di fronte alla guarigione di un malato (il pensiero mi va alla questione demografica ed a certe posizioni della Chiesa che, valide per un cristiano, possono non esserlo per altri).

Secondo me, da cristiani laici ed adulti ( anzi, direi meglio, come Felice Celato che non ama essere laico ma preferisce essere rispettoso: rispettosi ed adulti) elaborare su quanto venivano dicendo i nostri grandi Papi di questo e del secolo scorso (da Giovanni XXIII a Paolo VI, da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI): se la questione dello sviluppo è chiaramente una questione antropologica, dobbiamo prendere atto che ci possano essere anche altre antropologie di chi, non cristiano, pensa – per noi a torto – di potersi dare un suo proprio umanesimo fondato solo sulla ragione; solo sulla ragione possiamo fare un grande cammino insieme e possiamo condividere molti valori, ancorchè, talora, con diverse motivazioni.