Dopo l’attentato terroristico dell’11 settembre 2001, il presidente George Bush lanciò l’imponente operazione Enduring Freedom (Libertà Duratura) che iniziò il 7 ottobre dello stesso anno con l’invasione dell’Afghanistan. Alle truppe americane si aggiunsero nelle settimane seguenti truppe inglesi, turche, australiane, canadesi, tedesche, italiane, olandesi, francesi e polacche. Una forza d’urto eccezionale che si poneva esplicitamente come obiettivi la fine del regime dei Talebani e la distruzione della rete di al-Qāida, il gruppo terroristico di Osama bin Laden, “ospitato” in Afghanistan dal regime talebano e ritenuto l’ispiratore dell’attentato. Come tutte le guerre doveva essere una guerra-lampo.
La settimana scorsa, venti anni dopo l’inizio dell’operazione, il presidente Biden ha annunciato il ritiro dell’intero contingente dall’Afghanistan entro la fine di settembre: “Sono il quarto presidente americano a presiedere la presenza di truppe americane in Afghanistan. Due repubblicani. Due democratici”, ha detto Biden. “Non passerò questa responsabilità a un quinto”. I soldati americani morti in questa guerra -costata agli Stati Uniti circa 900 miliardi di dollari- sono stati più di duemila e i civili afghani almeno centomila. I morti italiani cinquantacinque. Oggi i Talebani controllano di nuovo gran parte del paese e sono molto attivi gruppi jihadisti legati all’Isis, che ha sostituito al-Qāida. L’Afghanistan è lontanissimo da qualsiasi stabilità, l’esportazione di oppio raddoppiata e i conflitti interni sono praticamente gli stessi del 2001.
So bene che una vicenda di queste proporzioni meriterebbe un’analisi ben più complessa e approfondita; ho fatto solo un rapido “conto della serva” perché la notizia del ritiro dall’Afghanistan mi ha ricordato altre vicende dall’esito analogo. Penso alla guerra del Vietnam, all’invasione sovietica dello stesso Afghanistan e a tanti altri episodi meno clamorosi nei quali si è ritenuto che con la forza si potessero ottenere in breve tempo risultati efficaci e duraturi nella impostazione di nuove relazioni internazionali. Ma non è l’unico modo. Quando il 5 giugno 1947 gli Stati Uniti lanciarono il Piano Marshall -che consisteva in uno stanziamento di circa tredici miliardi di dollari a favore dei paesi europei provati dal conflitto mondiale appena terminato- avevano obiettivi di politica estera non così diversi da quelli perseguiti in altri casi con la forza: costruire una relazione con l’Europa a loro favorevole, stringere accordi economici e militari duraturi nel tempo, evitare che nei paesi europei si deteriorassero le condizioni politiche, economiche e sociali interne. Ma scelsero una modalità di cooperazione, un atteggiamento costruttivo, spingendo gli europei ad utilizzare gli aiuti non solo per fronteggiare le contingenze del momento, ma per avviare un processo di trasformazione strutturale. Ed hanno ottenuto molto di più. Anche in questo caso ho solo fatto il conto della serva, limitandomi agli aspetti più evidenti, ma mi interessava sottolineare la radicale differenza fra i due atteggiamenti.
Anche se volessimo prescindere dagli aspetti etici, dovremmo aver imparato che le strategie muscolari e le illusioni risolutorie in tempi brevi non pagano; soddisfano altre esigenze (spesso più di politica interna che internazionale), ma non costruiscono nulla di positivo sui tempi lunghi. Questo lo abbiamo sempre saputo ma tendiamo a dimenticarlo, sia nelle relazioni internazionali che in quelle interpersonali, continuando ad immaginare efficaci guerre-lampo che “lampo” non sono mai e lasciamo sul campo cocci che qualcun altro -si spera- dovrà raccogliere.