Ogni fine dicembre ci auguriamo che il nuovo anno sia migliore del precedente e questa volta l’impresa sembrerebbe piuttosto facile!
Di solito tendiamo a rammentare gli eventi più spiacevoli e dolorosi dell’anno trascorso, imputandogli in qualche modo la colpa di averci deluso e tradito. Personalizziamo l’anno uscente, lo rimproveriamo, come se fosse “lui” il responsabile delle cose brutte accadute nel suo trascorrere, confondendo il contenitore con il contenuto perché del contenitore è più facile liberarsi; come se, cambiando nome all’anno, tutto ricominciasse magicamente da zero e scomparissero d’un colpo il Covid, le incertezze, le paure, i problemi. Sappiamo tutti ovviamente che non è così e pure -un po’ infantilmente- ogni anno ci affezioniamo all’idea che dal primo gennaio si cambierà partita e quella nuova sarà migliore, una convinzione difendibile visto che non sappiamo ancora come sarà e nessuno può smentirci.
Nulla di nuovo. Già duecento anni fa, nel suo breve e prezioso “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere” (QUI) Giacomo Leopardi fa dire al protagonista: “Ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?”. Per quanto irrazionale si tratta dunque di una convinzione salutare: credere che tutto sarà migliore, o almeno che possa esserlo, ci spinge a sperare e -auspicabilmente- ad impegnarci perché “migliore” lo sia davvero.
Sono convinto che una buona parte del disagio e dello sconcerto per le disavventure di questo 2020 -in modo particolare ed emblematico quelle legate alla pandemia- deriva dall’aver gradualmente ridotto, fin quasi ad azzerarla, la nostra capacità di accettare il rischio. Ci siamo progressivamente convinti che il nostro controllo sugli eventi, poteva sostanzialmente ridurre a zero i rischi del nostro vivere e del nostro decidere fino a ritenere un “diritto” il non correre rischi. In realtà il rischio zero non esiste e non è mai esistito, quello che possiamo (e dobbiamo) fare è lavorare alla sua progressiva riduzione rimanendo però consapevoli che non potremo mai annullarlo del tutto.
In questo 2020 lo abbiamo toccato con mano: le decisioni su come affrontare la pandemia sono sempre state -non solo in Italia- in bilico tra due rischi (quello sanitario e quello economico) e così continuerà ad essere nel 2021; lo stesso accadrà sui rischi legati ai futuri vaccini, alle future forme di prevenzione, alle attività da favorire o da evitare, alla priorità degli investimenti. A volte si farà la scelta migliore, a volte si sbaglierà; cambieranno i decisori, i criteri, le modalità… del ‘senno di poi’ si riempiranno voragini, ma non ci sarà -dovremmo averlo capito- la possibilità di eludere il rischio: è urgente recuperare, a livello personale e sociale, la nostra capacità di accettarlo e di affrontarlo come tale se non vogliamo annegare nella convinzione ossessiva di subire torti, inganni e danni ogni volta che la vita non sarà perfetta come nella fiaba che ci eravamo raccontati.
Il mio augurio per il 2021 è quello di riuscire ad accantonare la rabbia per i torti presunti e la frustrazione di non sapere con chi prendersela, recuperando piuttosto la capacità di accettare i rischi che la vita ci riserverà, affrontarli il più serenamente possibile e trovare il modo di uscirne insieme. Solo così “coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?”.