Nel 2008 scoppiò negli Stati Uniti -e si estese rapidamente a tutto il mondo- una profonda crisi finanziaria che creò danni enormi all’economia e alla produzione; mentre si cercavano ansiosamente soluzioni percorribili tutti ci domandavamo quando sarebbe stato finalmente possibile ritornare ai livelli pre-crisi. Seguirono -nel decennio successivo- altre gravi crisi che alterarono delicati equilibri geopolitici [una per tutte: la guerra in Siria], provocando la migrazione forzata di milioni di profughi e il truce terrorismo dell’ISIS che seminò morte e terrore in Medio Oriente, in Africa e infine in Europa. Anche in quelle circostanze ci domandavamo quando sarebbe stato finalmente possibile tornare agli equilibri pre-terrorismo.
Quando sembrò che alcuni di questi fenomeni riducessero la loro portata e la loro gravità, esplose -inaspettata- la pandemia, con livelli di letalità e di estensione da far impallidire le crisi precedenti. La malattia e la morte non conobbero più confini geografici, etnici o ideologici; l’orologio della paura tornò indietro di cento anni e rivivemmo l’impotenza che i nostri nonni avevano provato ai tempi della “Spagnola”. Ci domandavamo -e ancora ci domandiamo- quando potremo finalmente tornare ai livelli di produttività pre-pandemia.
Quest’anno è scoppiata la guerra in Ucraina che ci ha coinvolto e continua a coinvolgerci in profondità, non solo sul piano etico e politico, ma anche su quello concretissimo del costo dell’energia, delle bollette da pagare, delle ferite inferte al faticoso cammino della coesione europea. E siamo qui a chiederci ogni giorno quando finirà, quando torneremo finalmente alla normalità pre-guerra.
Pre-crisi, pre-terrorismo, pre-pandemia, pre-guerra… c’è sempre un “pre” che rimpiangiamo e tentiamo in tutti i modi di recuperare. E’ il mito del ritorno alla normalità, del ripristino di un equilibrio che siamo convinti esserci “dovuto” e che solo per qualche incidente di percorso ci è stato temporaneamente sottratto. Ragioniamo come se nella storia dell’umanità e in quella di ciascuno di noi esistesse -per diritto assoluto- uno status “normale” (di benessere, di serenità, di ricchezza, di costante miglioramento, ecc.) dal quale si è solo provvisoriamente derogato. Ma le cose stanno davvero così? J.K.Galbraith ha intitolato il suo ultimo saggio “The End of Normal” nel quale invita tutti a dimenticarsi la normalità e ad abituarsi alla “economia del meno”; dice Galbraith che l’instabilità e la crisi sono ormai pane quotidiano e “mai più avremo una crescita così come l’abbiamo conosciuta”.
Non c’è nessuna età dell’oro destinata necessariamente a tornare, il futuro è davanti a noi (non dietro!), non è un “pre” da ripristinare, è un “post” da inventare e costruire. Non ci sono diritti e livelli acquisiti per sempre: anche il faraone Ramses, Ciro il Grande di Persia, Alessandro il Macedone, l’imperatore Augusto, Carlo Magno… erano convinti che le civiltà che guidavano costituissero una “normalità” definitiva e stabile da difendere e -se del caso- da ripristinare. Eppure così non fu, e ogni civiltà -per grande e potente che fosse- cedette il passo alla successiva e i nuovi equilibri furono ogni volta definiti da chi ebbe la forza e il realismo di guardare avanti e non indietro.
La nostra civiltà non è diversa da quelle che l’hanno preceduta. I nostri equilibri relazionali e politici non sono definiti per sempre. Il nostro livello di benessere (quello di un californiano o quello di un congolese?) non è un diritto inalienabile e irreversibile. Siamo parte di una storia che cambia modificando costantemente la distribuzione di poteri e ricchezze, di accesso ai beni e alla conoscenza. Siamo quasi otto miliardi su questo pianeta e l’ansia di “ripristinare” gli equilibri precedenti dovrebbe lasciare il passo all’impegno per costruire nuovi equilibri facendo confluire in questo impegno le nostre convinzioni più profonde, i valori in cui crediamo, i modelli che riteniamo più giusti. Il futuro sarà quello che riusciremo pragmaticamente a costruire: alla “normalità” si arriva, non si ritorna.
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