“Quale paese lasceremo ai nostri figli? Tante volte abbiamo indicato obbiettivi, linee di azione, aree di intervento. A distanza di cinque anni, quando si guarda a quanto poco di tutto ciò si sia tradotto in realtà, viene in mente l’inutilità delle prediche di un mio ben più illustre predecessore”. Così scrive, verso la fine (pag. 18) delle sue Considerazioni Finali (Assemblea 2011), il Governatore Mario Draghi.
Ancora caldi gli scomposti clamori pre- e post- elettorali (alcuni di questi ultimi francamente desolanti), l’unico “tedesco” di cui (purtroppo) dispone la classe dirigente italiana ha svolto, con la profondità, l’essenzialità e la lucidità che gli sono proprie, una nuova ed antica lezione di quel “patriottismo mite” che da sempre caratterizza lo stile migliore della Banca d’Italia.
E’ diventata infatti un’operazione di patriottismo il dire, senza astuzie mediatiche o, peggio, vergognosi infingimenti, la verità sullo stato del paese, soprattutto se questa verità non è disgiunta da una ferma e tenace convinzione che l’Italia ha ancora le risorse vitali per uscire dall’”insabbiamento” in cui sembra affondare.
Gli slogan con cui abbiamo nutrito l’illusione pigra che ci ottunde (“la crisi è alle spalle”,”noi stiamo meglio degli altri”, “i conti sono in ordine”,etc. etc.) sono stati sistematicamente demoliti:
- l’Italia non cresce da tempo al ritmo dei suoi omologhi e si allontana progressivamente dai loro standard;
- il suo sistema produttivo perde competitività, e le dinamiche retributive – per conseguenza – ristagnano;
- l’adattamento alle tecnologie ed alle logiche del contesto globalizzato è ancora scarso e lento;
- giustizia (civile) e istruzione denotano livelli di funzionalità assolutamente inaccettabili;
- la concorrenza, soprattutto nei servizi, stenta a propagarsi;
- la carente dotazione infrastrutturale, la sua dinamica nel tempo ed i suoi costi unitari accrescono il nostro divario con i paesi omologhi;
- il mercato del lavoro penalizza oltre misura giovani e donne ed il sistema di protezione sociale non si dimostra funzionale alle esigenze delle categorie marginalizzate;
- il contesto fiscale, normativo ed amministrativo non incoraggia la crescita di un sistema produttivo tuttora dimensionalmente inadeguato;
- gli intrecci di interessi corporativi opprimono il Paese.
E ciò, senza negare gli aspetti fortunatamente positivi della nostra situazione né le azioni più efficaci dell’attività di Governo, prime fra tutte, lo ha ricordato Draghi, il relativo contenimento del deficit pubblico e il recupero di evasione fiscale.
Anche sul da farsi sul fronte della finanza pubblica, Mario Draghi ha dato una lezione di concretezza: riduzione del debito pubblico (“non esistono scorciatoie”) attraverso l’attuazione dei piani concordati senza sacrificare la spesa per investimenti: spesa primaria corrente – 5% in termini reali nel triennio 2012-14 (si tratta di una manovra imponente, opportunamente anticipata a giugno di quest’anno), con tagli verticali (non cioè uniformi su tutte le voci ma rivedendo chirurgicamente “voce per voce” i bilanci degli enti pubblici), riduzioni di imposte ai lavoratori ed alle imprese, finanziate da ulteriori recuperi dell’evasione , nuovi tributi locali solo a fronte di riduzione di quelli centrali.
Che dire?
Mah! Detto che i famosi tagli uniformi, tanto spesso addebitati dagli stessi governanti alla irrispondenza di Tremonti, vanno in realtà attribuiti ad una sua necessitata gestione della irresponsabilità di molti suoi colleghi ministri “di spesa”, aggiungerei che, più che da Milano e da Napoli, la sveglia al
Paese mi pare sia risuonata da via Nazionale.
L’Italia, lo ha ricordato con passione Mario Draghi, in situazione più grave, all’inizio degli anni Novanta, quando affrontò “una gravissima crisi di fiducia nella sostenibilità del suo debito pubblico”,”seppe uscire dalla crisi senza bisogno di aiuti esterni, grazie ad un ambizioso piano di consolidamento fiscale, a riforme strutturali importanti e all’attuazione di un programma di privatizzazioni per circa il 10% del PIL”.
Come sanno tutti coloro che hanno la pazienza di scorrere le mie note, mi piace leggere le dinamiche economiche collegandole con quelle, più magmatiche ed informi, di natura sociologica, per loro natura non facilmente misurabili e di interpretazione più complessa: “dovremo …. prendere atto che la complessità italiana è essenzialmente complessità culturale: la crisi che stiamo attraversando ha bisogno quindi principalmente di uno scavo e di messaggi che facciano autocoscienza di massa (di massa e non di piazza, come pensano affabulatori in cerca di autostima)”. Così scriveva Giuseppe De Rita solo pochi mesi fa (Censis, Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2010), raccomandando a noi stessi “di ritrovare una mente in opera, un riarmo mentale più che morale”.
Programma vasto, direbbe De Gaulle; ma programma ancora (forse per poco) alla nostra portata, solo che cessi il modo frivolo e disgregato con cui ci autorappresentiamo.
La politica ha ovviamente un ruolo decisivo in questa uscita dalla sabbia; alcuni segnali delle vicende post-elettorali non sono affatto rassicuranti. Ma alcuni risultati lasciano pure sperare, non tanto per il loro significato partitico, ma per il messaggio, più profondo, che hanno comunicato in termini di rifiuto della politica della paura, di capacità di scoprire le menzogne elettoralistiche, di percezione della necessità del cambiamento, di rifiuto di scambi al ribasso.
Chi prenderà in mano queste tendenze per farle diventare autocoscienza e, attraverso questa, vigorosa reazione di responsabilità intergenerazionale?
Non lo so. Ma forse solo perché non mi intendo abbastanza di politica.