Le Costituzioni francesi, immediatamente successive alla rivoluzione, avevano introdotto il principio dell?elezione popolare dei giudici e tale principio era stato ripreso dagli Statuti italiani dell?epoca; ma non era stato conservato in nessuna delle Costituzioni successive.
Anche la Costituzione francese del 1848 aveva attribuito al potere Esecutivo la nomina dei giudici, e quella romana la imitò, stabilendo che la nomina dovesse esser fatta dai Consoli in Consiglio dei Ministri.
Il titolo VI della Costituzione romana si apriva con la solenne affermazione contenuta nell?articolo 49: ?I giudici nell?esercizio delle loro funzioni non dipendono da altro potere dello Stato? .
Tale indipendenza era stata già riconosciuta dallo Statuto di Pio IX (art. 13).
Ma tra le due disposizioni vi era una differenza: mentre lo Statuto di Pio IX, pur affermando il principio dell?inamovibilità dei giudici, ne permetteva il trasferimento da una ad un?altra sede d?importanza eguale o superiore, la Costituzione Romana dichiarava che i giudici ?non potevano ne esser promossi, ne traslocati, ne sospesi, ne degradati o destituiti, se non dopo regolare procedura o sentenza? (art. 50).Lo Statuto Albertino, invece, aveva solo parzialmente garantito l?indipendenza dei magistrati, in quanto aveva stabilito la loro indipendenza solo dopo tre anni di esercizio (art. 69): e per i giudici che erano già in servizio si discuteva se i tre anni dovessero decorrere dall?entrata in vigore dello statuto, termine che avrebbe consentito al governo di disfarsi dei giudici sgraditi prima che scattasse la data a partire dalla quale si acquistava la garanzia dell?inamovibilità, o dal momento dell?ingresso in magistratura. L?unica ragione del triennio di prova consisteva nella possibilità di fare un esperimento circa la fede politica dei magistrati.
L?articolo 49 della Costituzione Romana si ricollegava all?articolo 4 titolo I della Costituzione stessa che disponeva: ?Nessuno può esser arrestato che in flagrante delitto, o per mandato dei giudici; ne esser distolto dai suoi giudici naturali. Nessuna corte o commissione eccezionale può istituirsi sotto qualsivoglia titolo o nome? . Pertanto i giudici dovevano esser naturali poiché, se essi indossavano la toga della giustizia, non lo facevano in nome e per investitura di un potere o di un titolo statale estraneo e sovrastante, dualisticamente concepito e imposto, ma in nome di quella stessa umana natura per cui anche l?inquisito era considerato, al par di lui, uomo e cittadino. Con ciò la sentenza del giudice veniva a perdere quel carattere disonorevole che rivestiva quando il magistrato era l?organo di un potere a lui trascendente, per cui pareva in verità che il condannato dovesse soggiacere ad un atto di forza e di arbitrio. Di qui, dunque, il principio che il giudice non doveva trarre da altro potere il titolo della sua sovranità, se non da se stesso: di qui l?indipendenza amministrativa e disciplinare del giudice stesso. Tale indipendenza della magistratura diverrà un canone inamovibile di ogni moderno sistema democratico.
L?indipendenza dei giudici costituiva, da una parte, un?autonomia di giudizio degli stessi nei confronti di ogni altro potere dello Stato, di modo che il loro convincimento non veniva determinato o influenzato da altro se non dalla loro coscienza e dalla loro professionalità; dall?altra, tale indipendenza veniva a costituire un?effettiva garanzia per i cittadini le cui libertà fondamentali non dovevano esser limitate se non nei casi e nei modi indicati dalla legge.
La Carta Romana all?articolo 50 prevedeva la nomina dei giudici da parte dei Consoli, in consiglio dei ministri e l?inamovibilità dei giudici stessi.
In riferimento alla prima parte di tale articolo il Rusconi commentava: ?Perché non nominati anch?essi dal suffragio universale, se si fa dell?ordine giudiziario un potere indipendente come tutti gli altri??

Anche il principio dell?inamovibilità era una forte garanzia a favore dei giudici, che non significava che i giudici non potevano esser spostati dal loro ufficio, ma che tale spostamento poteva avvenire ?se non dopo una regolare procedura o sentenza? . Perciò nessuna autorità aveva il potere di spostare il giudice dal posto che ricopriva. Tale garanzia costituiva una risposta al potere Esecutivo che fino a quel momento aveva il potere discrezionale di spostare un giudice: tale potere era una facile arma di intimidazione e di ricatto verso i giudici, venendo a ledere la loro indipendenza.
L?articolo 52 garantiva che ?la giustizia è amministrata in nome del popolo, pubblicamente; ma il tribunale, a causa di moralità, può ordinare che la discussione sia fatta a porte chiuse? .
Tale articolo era la traduzione dell?articolo 81 della Costituzione francese del 1848, che per altro aveva dichiarato gratuita l?amministrazione della giustizia.
All?osservazione fatta da alcuni deputati che tutti gli atti dovevano essere intestati ?a nome di Dio e del Popolo? , il Saliceti rispose che tale intestazione doveva esser usata soltanto per le leggi perché ? la sentenza, benché possa costituire cosa giudicata, ha forza di legge unicamente fra i litiganti; siccome poi la sentenza può esser ingiusta, è per rispetto all?Essere supremo che non si intima a suo nome, il quale non si nomina giammai invano? ( Ass. del Risorg. ).
Come detto la ?giustizia è amministrata in nome del popolo? ( art 52 ), invece lo Statuto Albertino del 1848 apriva la sezione dedicata all?ordine giudiziario con l?affermazione che la ?giustizia emana dal re?, ed è amministrata in suo nome dai giudici che egli istituisce (art. 68).
Poi l?articolo 73 dello Statuto stesso disponeva che ?l?interpretazione delle leggi, in modo per tutti obbligatorio, spetta esclusivamente al potere legislativo?. In un sistema dove il potere legislativo spettava al re e alle camere, lo Statuto riservava al potere legislativo l?interpretazione autentica del diritto, mediante un precetto la cui portata consisteva essenzialmente nell?escludere il riconoscimento di qualunque forma di ?diritto giurisprudenziale?.
Un?impronta di sincera democrazia veniva conferita alla Costituzione Romana dall?articolo 53, in cui veniva sancito che: ?Nelle cause criminali, al popolo appartiene il giudizio del fatto, ai tribunali l?applicazione della legge. La istituzione dei giudici del fatto è determinata da legge relativa? (i giudici del fatto erano i giurati).
Il titolo VI si chiudeva (art. 55) con l?istituzione di un Tribunale supremo di giustizia con il compito di giudicare i Consoli e i Ministri messi in stato d?accusa; Tale tribunale veniva composto del presidente, di quattro giudici più anziani della cassazione, e di giudici del fatto tratti a sorte dalle liste annuali, tre per ciascuna provincia. Era compito dell?Assemblea nominare il magistrato che doveva svolgere funzioni di Pubblico Ministero presso il Tribunale supremo; ed infine si stabiliva esser necessaria la maggioranza di due terzi di suffragi per la condanna. Tale articolo si rifaceva agli articoli 92 e 97 della Costituzione francese del 1848.
È da rilevare che lo Statuto di Pio IX non conteneva alcuna norma relativa all?amministrazione della giustizia e che lo Statuto Albertino, negli articoli dedicati all?ordine giudiziario, prevedeva l?inamovibilità per i giudici dopo tre anni di esercizio con esclusione però dei giudici di mandamento (art. 69); nulla disponeva invece sulla partecipazione del popolo quale giudice del fatto.
La Costituzione Romana appariva ancora una volta nettamente più garantista ed avanzata.
Oggi nella nostra Costituzione si è affermato saldamente il principio dell?indipendenza dei giudici, indipendenza considerata sia come ?indipendenza interna? che ?esterna? . Ed è nota l?importanza che, nel 1958, con significativo ritardo rispetto all?entrata in vigore della Carta Costituzionale, assunse l?istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura..
Ma è giusto sottolineare che le disposizioni sulla magistratura previste nella Costituzione della Repubblica Romana presentavano aspetti di singolare modernità (anche nei confronti della situazione odierna).
Va, infine, ricordato che democrazia significa che ?il popolo al potere ha il nome più bello: isonomia? (Erodoto, Storie); quindi la democrazia va identificata con questo suo principio essenziale, l?isonomia, che significa regime di eguaglianza delle leggi, cioè la legge è uguale per tutti. Erodoto, quindi, ha rilevato lo stretto legame fra eguaglianza e democrazia; infatti nella democrazia l?eguaglianza diviene regola fondamentale di tutela delle minoranze e di partecipazione al potere. La democrazia è pertanto caratterizzata dall?eguaglianza che si applica sia nei rapporti fra potere pubblico e i privati, ove il primo perde i privilegi di origine autoritaria, soggiacendo alle stesse norme che regolano i privati; sia nei rapporti fra il singolo e qualsiasi forma di potere, ed anche nei rapporti fra i privati stessi. È bene tener presente il legame fra democrazia ed eguaglianza per comprendere ed arginare oscure insidie.