I 30 operatori e gli oltre 200 volontari del Centro Astalli sanno che, per capire il senso del servizio, da lì bisogna passare: dalla mensa. Per trovare nuove motivazioni, per non rischiare di diventare autoreferenziali e ripetitivi nel proprio lavoro è lì che si deve tornare ogni tanto. Capire, ricordare e stupirsi ogni volta di cosa sia il dolore, di quanto possa essere giovane la sofferenza, di come sia silenziosa, dignitosa, ma non per questo meno grande e totalizzante.
Un lungo corridoio in cui passa sfilando la geopolitica dei quattro continenti. Cammina ordinata la storia del mondo. Scorre lungo le inferriate in ordine sparso: la guerra in Eritrea, le violenze in Costa D?Avorio, la tragedia afgana, le finte democrazie in Togo e Guinea sono lì ad aspettare che qualcuno si accorga di loro, si occupi di quello che succede nelle loro città, nelle loro case, alla loro gente.
Ci hanno mandato i migliori, i più sani, i più forti, ci hanno dato il meglio che avevano da offrirci: i loro giovani, i loro figli, quelli da mettere in salvo perché il futuro è lungo. Li hanno tolti dai banchi di scuola, li hanno sottratti alle loro famiglie, alle loro fidanzate o mogli, ai loro bambini per mandarli a chiedere protezione, giustizia.
E proprio dalla mensa si comincia a chiedere giustizia: avere da mangiare è un diritto, perché se anche il cibo è un privilegio tutto il resto è impossibile.
Ogni giorno alla mensa del Centro Astalli si servono fino a quattrocento pasti. Qui i numeri e le statistiche sulle presenza in Italia degli stranieri diventano volti da guardare negli occhi, sguardi a cui non sottrarsi.
L?estate con i suoi sbarchi fa sempre aumentare la fila, è normale per gli addetti ai lavori. Una normalità assurda: a 500 persone che chiedono da mangiare non ci si deve abituare. Una mensa come quella del Centro Astalli non può reggere a lungo con questi numeri, non è attrezzata: il personale, i volontari non hanno lo spazio, le energie per garantire a tutti la stessa accoglienza.
A volte questo sembra un problema solo nostro e non del resto della città. E allora bisogna raccontare, gridare se necessario, il dolore di chi è lì a chiedere da mangiare, convinto di essere un privilegiato, un superstite, l?eletto di un popolo che resta a morire intrappolato nella guerra, nelle dittature, nella mancanza di diritti.
C?è Abraham, venti anni, da due settimane in Italia, sguardo attento e impaurito, sbuccia un?arancia. È giunto a Lampedusa con un gommone dall?Eritrea. Erano in trenta in mare per nove giorni, sono arrivati vivi in ventuno.
C?è Ali, 18 anni, partito quattro anni fa dall?Afghanistan a piedi, un bambino diventato uomo in viaggio. Sa che è il Ramadan ma ha fame e Allah lo sa che lui il suo digiuno l?ha già fatto.
E poi c?è lei, seduta su una sedia che non vuole mangiare, non vuole parlare: il suo corpo è lì ma la mente viaggia lontana: ritorna a casa sua, in Costa D?Avorio. ?Non posso rispondere alle domande, devo pensare a dove dormire stanotte, non so dove andare, lasciami stare, devo stare da sola?.
Della Costa D?Avorio ce ne sono tanti: ragazzi ben vestiti, arrivati in aereo, che si ritrovano insieme a mangiare. In un paese straniero si diventa subito amici se si arriva dallo stesso posto e si condivide lo stesso dolore. La maglietta dei campioni del calcio che qualcuno di loro indossa, obbliga a ricordare che nonostante tutto sono ragazzi, a cui troppo presto è stato tolto il diritto alla loro età.
Ad Anne invece oltre all?età hanno tolto anche il diritto di essere donna. Mangia alla mensa tra tanta gente, per lo più uomini, impaurita, in disparte consuma velocemente il suo pasto. Ventitre anni appena compiuti, è scappata dal suo paese e dalla sua famiglia. Un uomo di sessantacinque anni: un matrimonio contro la sua volontà. Un vecchio come marito, già sposato con altre tre donne. Trattata come una schiava dalle mogli più anziane, obbligata a rapporti sessuali da un uomo che non è stato neanche per un istante ?il suo?.
È sola senza nessuno a cui telefonare nei momenti di nostalgia, senza qualcuno da considerare di famiglia.
Ora deve ricominciare da capo, prima il cibo, poi un letto. Arriveranno col tempo nuove amicizie, nuovi legami, anche se oggi questo fa ancora troppa paura.
Chi lavora alla mensa sa che i miracoli accadono: in quel lungo corridoio si ricomincia a vivere, il corpo si riscalda e la mente si rilassa. A volte è così, altre volte no.
Per fortuna col tempo si impara a sopravvivere anche ai fallimenti e ci si affeziona a chi continua a venire dopo anni perché fuori non si è trovato un luogo migliore da chiamare casa: come per Yari che sa che alla mensa nessuno gli farà del male e può sempre trovare una sigaretta, come piace a lui. O come Abdel che di guai ne ha passati e combinati molti da quando è in Italia, ma che alla mensa continua a tornare perché sa che lì nessuno lo giudica e se gli serve un cerotto glielo danno sapendo bene che non è solo per rimarginare la brutta ferita che si è procurata sotto il piede.

Tutti a tavola, nessuno escluso!

Campagna di raccolta fondi per finanziare
la mensa per richiedenti asilo e rifugiati del Centro Astalli

Da dopo l?estate il Centro Astalli ogni giorno si trova a dover fronteggiare una vera e propria ?emergenza mensa?: oltre 400 richiedenti asilo e rifugiati quotidianamente in fila che chiedono di mangiare un pasto caldo.
Per riuscire a mantenere e a garantire a tutti questo servizio il Centro Astalli lancia la campagna ?Tutti a tavola, nessuno escluso!?.
Con soli 5,00 ? puoi garantire un pasto caldo a una persona per cui ancora oggi mangiare è un privilegio.

Per aderire a questa campagna puoi utilizzare il conto corrente postale n. 49870009
intestato a: Associazione Centro Astalli – Roma o fare un bonifico bancario: Banca popolare di Bergamo. Sede di Roma. via dei Crociferi, 44 – 00187 Roma, ABI: 5428 ? CAB: 03200 ? CIN: N