Per chi è stato a Bucarest qualche anno fa, tornarci ora significa percepirvi un fermento dinamico e un aumento apparentemente quasi generalizzato del tenore di vita. La città è in trasformazione, i lavori per l’ammodernamento della viabilità e dell’arredo urbano sono visibili e non soltanto nel centro.

Si avvertono cambiamenti nel modo di vestire delle persone, nella disponibilità di denaro e nella crescente diversificazione delle possibilità di spenderlo: la varietà di negozi e la cilindrata di molte automobili in circolazione sembrano indicativi al riguardo. Grazie agli investimenti stranieri e, più recentemente, grazie ai fondi strutturali arrivati dalla UE, il reddito medio è raddoppiato rispetto a quattro anni fa: così sostiene il governo in carica in vista delle elezioni del 30 novembre e i dati sostanzialmente gli danno ragione. I ritmi di crescita sono i più alti dell’intera Europa, anche se per il prossimo anno, a causa della congiuntura internazionale sfavorevole, si prospetta un rallentamento. Di questa situazione beneficia non soltanto la crescente platea di nuovi ricchi, ma anche un ceto medio sempre più esteso, nel quale i meno giovani riescono a trovare posto con maggiore affanno. Al di fuori della capitale l’aumento del tenore di vita non sembra procedere altrettanto speditamente, ma si notano comunque visibili segnali di miglioramento.

In questo clima, che potremmo definire incline all’ottimismo e a una certa euforia consumistica, non sembra esserci grande spazio per alimentare polemiche e risentimenti con altri popoli o pregiudizi su base nazionale, che molte volte sono piuttosto dei diversivi utilizzati nelle situazioni di crisi o di depressione socio-economica. Di questo clima sembrano beneficiare anche i rapporti con l’Italia. Dopo il periodo di maggiore incomprensione, accompagnato in entrambi i Paesi dal martellamento mediatico sul ‘caso Mailat’, la situazione volge al sereno.

Certo, i segni delle ferite non sono scomparsi. Secondo recenti indagini, i giudizi positivi dei romeni sugli italiani hanno subito un calo relativo del 15-20% (e del 20-30% nel caso degli italiani nei confronti dei romeni). Il rischio che si avverte da queste parti è che la riduzione delle polemiche esplose un anno fa nasconda una perdita di interesse da parte romena, condannando all’irrilevanza i rapporti reciproci; ciò a dispetto sia dell’imponente numero di romeni in Italia sia della presenza italiana in Romania, che è ritenuta significativa in termini di residenti (valutati in alcune decine di migliaia di persone prevalentemente stabilite in centri della Romania occidentale come Timisoara) ma ancor più sul piano degli investimenti economici.

L’emigrazione romena sta spostando in modo crescente il proprio baricentro verso la Spagna, la quale gode – come altrove in Europa – di un’ottima immagine e sembra aver superato da tempo come popolarità tanto l’Italia quanto la Francia, quest’ultima patria putativa di tanta parte dell’intellettualità romena, ma mai meta d’immigrazione particolarmente ambita dai lavoratori romeni della ‘diaspora’ post-89.

Sul piano delle pubbliche relazioni, va dato atto al governo romeno di essersi mosso con intelligenza, sostenendo un investimento economico non indifferente per una campagna pubblicitaria tesa a promuovere in Italia l’immagine dei propri connazionali: è una campagna dall’esito ancora incerto ma testimonia una buona volontà che, all’atto pratico, non è sempre concretamente riscontrabile da parte italiana. Tra i due popoli permane un deficit di conoscenza reciproca; sul piano delle istituzioni e delle politiche culturali il repertorio offerto è ancora sorprendentemente limitato, sebbene da qualche tempo le cose vadano migliorando.

La principale “pietra dello scandalo” nelle relazioni italo-romene rimane la comunità rom. Tra i romeni, forse ancor più che tra gli italiani, è spesso considerata sentina di ogni male. Giunti in Romania in età moderna, quando furono inizialmente vittime di una vera e propria tratta degli schiavi, i rom continuarono a restare ai margini della storia nazionale romena anche dopo la costruzione di uno Stato unitario – avvenuta cronologicamente in parallelo con l’Italia. Durante la seconda guerra mondiale vennero deportati in gran numero nella regione della Trasnistria per iniziativa del governo dittatoriale del maresciallo Antonescu.

Negli anni del socialismo reale, i rom videro un relativo miglioramento nella propria integrazione socio-economica: miglioramento appunto relativo, perché continuarono a rappresentare lo strato più povero ed emarginato della popolazione romena, sottoposto a discriminazioni e pur sempre costretto a subordinare ogni eventuale promozione sociale ad un processo di assimilazione forzata, in assenza di un riconoscimento della loro individualità culturale. Alla caduta del comunismo, quando avevano verosimilmente già sorpassato per numero la più grande minoranza nazionale, quella ungherese (oltre un milione e mezzo di persone), i rom continuavano a non comparire in alcun censimento ufficiale, non essendo loro riconosciuto lo status di minoranza.

Allo stato attuale, per i rom le cose non sembrano essere migliorate in termini di lotta alla discriminazione e all’emarginazione. La denominazione tigan (“zingaro”) continua ad essere uno stigma sociale. Per una parte della stampa e dell’opinione pubblica romena qualsiasi connazionale commetta reati in Italia non può che essere uno zingaro, anche nei casi in cui questo accostamento appaia del tutto improbabile. Ovviamente nella realtà le cose stanno diversamente.

Di vero c’è che molto spesso i rom romeni che si spostano nel nostro Paese rappresentano il segmento socialmente meno integrato e con maggiori problematiche di devianza all’interno della comunità rom della regione da cui generalmente provengono – l’Oltenia, nel sud-ovest della Romania, che è anche la regione più povera del Paese.

Si tratta generalmente di persone le quali, per assenza di qualificazione ancor più che per “stile di vita”, risultano emarginate in un mercato lavorativo crescentemente competitivo. La parte integrata della popolazione rom, ben visibile nella capitale romena, appare inserita sul piano occupazionale, seppure a un livello basso (in ditte di servizi oltre che, tradizionalmente, nel commercio ambulante e come titolari di negozi di fiori); e non sembra, nella sua generalità, interessata a trasferirsi in Italia.

Ma c’è dell’altro. Gli studiosi romeni che si occupano dei rom osservano con sconcerto come molti tra questi, che in Romania avevano una casa e un lavoro, in Italia tornino a uno stile di vita ‘nomade’ e vadano a vivere in accampamenti.

In Romania lo Stato ha sempre tenuto ferma la barra sul principio di vietare gli accampamenti e il nomadismo, ancor prima che intervenisse il regime comunista ad accelerare il processo di sedentarizzazione forzata dei rom, ‘trasferendoli’ spesso nei blocchi di edilizia popolare insieme ad altri cittadini. La critica ricorrente nei confronti dell’Italia che emerge da parte romena (a livello sia di governo sia di opinione pubblica) è di non essere abbastanza “rigorosi” con la popolazione rom, di ammettere l’esistenza di campi nomadi nelle città e ai loro margini e di non perseguire efficacemente il crimine; di essere, quindi, uno Stato debole che garantisce impunità, dando vita al manifestarsi di estesi fenomeni di devianza. In Romania – sottolineano – un furto ‘ordinario’, senza aggravanti, viene punito con cinque anni di carcere senza condizionale. Non soltanto il sistema giudiziario è severo, ma la polizia è una presenza visibile e i rom un target ‘privilegiato’ di controlli o azioni di prevenzione e di repressione.

Dalla Romania non riteniamo si debba prendere a modello un’eccessiva durezza da parte del sistema giudiziario e delle forze dell’ordine, durezza molte volte accompagnata da arbitrarietà ed atteggiamenti discriminatori. Questa, tra le altre cose, risolve i problemi soltanto in superficie, perché appare troppe volte disgiunta da politiche serie che risalgano alla radice dell’emarginazione sociale della popolazione rom. Osservando i mutamenti – spesso di segno negativo – che attraversano i rom che si trasferiscono in Italia si può invece concludere che lo Stato, le amministrazioni e i soggetti sociali interessati, dovrebbero assumere un atteggiamento al tempo stesso più generoso e più esigente. In termini di integrazione e di partecipazione sociale e civile, diamo poco e in cambio chiediamo poco alla comunità rom. Si tratta invece di dare e di chiedere di più. Assicurare la sicurezza e la certezza del diritto risulta un proposito meno effimero se si accompagna all’adozione di principi di non discriminazione ed a strumenti di integrazione sociale ed abitativa che evitino il perpetuarsi di una rappresentazione dei rom come “mina vagante” e minaccia alla convivenza.