La tragedia della funivia del Mottarone ha dominato le cronache della scorsa settimana. Sono morte quattordici persone in un incidente attribuibile -così sembra- ad una grave superficialità e dunque avrebbe potuto essere evitato.
Come è potuto accadere? E’ davvero possibile che si metta a rischio la vita di persone spinti dall’avidità? «Non credo sia stata l’avidità a muovere quelle persone a disattivare i freni d’emergenza pur di lavorare, -scrive Francesco Costa (QUI)- questa non mi sembra una “strage dell’avidità”: mi sembra una strage del “tengo famiglia”. Una strage del “anche noi dobbiamo mangiare”. Una strage di chi si crede più furbo degli altri, di chi lavora male perché “cosa vuoi che succeda”, “ci penserà qualcun altro”, “con tutte le schifezze che fanno gli altri, proprio noi dobbiamo farci problemi?”. Qual è la differenza tra chi ha tolto il freno di una funivia pur di lavorare e chi ha tenuto il ristorante aperto quando era vietato, nonostante la certezza di provocare contagi e morti? Certo, morti forse meno cruente e visibili: ma morti. Questa cultura è ovunque intorno a noi. Abbiamo un problema di responsabilità.»
Di fronte a tragedie di questo tipo, in cui non si può invocare la fatalità, è difficile non inorridire e non unirsi al coro di chi grida “è inaccettabile!”. Per una volta non abbiamo dubbi a condividere (giustamente) la condanna netta e senza sfumature di un comportamento così irresponsabile e -per le gravissime conseguenze che ha causato- di invocare punizioni esemplari per i colpevoli. Giustissimo, per carità! Non ci sono davvero attenuanti per una tale colpa.
Mi permetto solo una riflessione che non riguarda i colpevoli della funivia, ma piuttosto noi che trasecoliamo, gridiamo “è inaccettabile!” e ci affrettiamo a condannare i mostri. Cos’è -con precisione- che riteniamo “inaccettabile”: la irresponsabile sottovalutazione del rischio o la gravità delle conseguenze? Dove si annida esattamente la colpa? Se la medesima sottovalutazione non avesse avuto conseguenze –come è accaduto più volte nei giorni precedenti l’incidente- non saremmo qui a parlarne, eppure la colpa sarebbe stata esattamente la stessa.
Davvero non abbiamo mai -per superficialità- sottovalutato un rischio e ci siamo esposti, o abbiamo esposto altri, a subirne le conseguenze? E se poi fortunatamente ci è andata bene… possiamo per questo ritenerci meno colpevoli? Quante volte rendendoci conto del rischio corso o fatto correre abbiamo esclamato: “non ci voglio nemmeno pensare a quello che poteva succedere!”, “meno male che non passava nessuno!”, “cinque centimetri più in là e…”. Ogni volta che sottovalutiamo un rischio la colpa l’abbiamo già commessa, indipendentemente dal fatto che la nostra imprudenza generi l’incidente: che finisca con un sospiro di sollievo o con il grido “inaccettabile” è solo questione di probabilità statistica. Potremmo consolatoriamente obiettare che -nel nostro caso- si trattava di rischi meno gravi e di probabilità infinitesimali, ma è tipico delle probabilità apparire minime… finché non si verificano; inoltre spesso la gravità delle conseguenze non è rapportabile alla gravità della sottovalutazione.
E’ giusto che ognuno paghi per le sue responsabilità accertate quando queste hanno prodotto gravi e tragiche conseguenze; non so invece quanto siamo saggi ed onesti con noi stessi quando siamo ansiosi di tranciare severi giudizi nell’ansia di convincerci della nostra sostanziale diversità e angelica innocenza.
“Inaccettabile” spesso non è solo il contrario di accettabile, è piuttosto un grido di paura e di scaramanzia. Vorremmo solo che non succedesse più.