11 Febbraio 2011: il presidente Mubarak si dimette. Una presidenza dittatoriale che ha portato il popolo egiziano a manifestare in piazza per lunghi giorni.
Questa data, destinata a rimanere nella storia, è una data che ha coinvolto anche me, che mi trovavo dall’altra parte del Mediterraneo, in Libia. Mentre in una stanza d’albergo nel centro di Tripoli seguivo con gioia i festeggiamenti del popolo egiziano in piazza Tahrir sul canale di news Aljazeera, all’improvviso mi sono ritrovata sintonizzata su un altro canale di musica araba. Eppure quel telecomando non lo avevo nemmeno sfiorato, ci ha pensato qualcun altro a decidere cosa io potevo guardare e cosa era vietato guardare in quel preciso istante.
Da qui inizia la mia avventura verso la conoscenza da vicino della dittatura e soprattutto del significato che essa ha nel quotidiano delle persone. E il destino vuole che mi sia ritrovata proprio a Tripoli, solo qualche giorno prima delle prime manifestazione dei giovani libici a Bengasi e poi nel resto del Paese. Un’iniziativa che davvero merita da parte nostra grande rispetto e sostegno non solo per le legittime richiesta di libertà e democrazia in Libia come in altri Paesi dell’area. Ma soprattutto per il grande coraggio che quei giovani hanno dimostrato in un regime che per quarant’anni non ha mai conosciuto alcuna parentesi di dissenso o solo lievi critiche al regime. La risposta è stata più volte la pena di morte o la detenzione senza processo.
Dopo quel venerdì 11 febbraio, tutti i canali internazionali d’informazione sono stati via via eliminati dal mio schermo al plasma, e mentre la televisione di stato libica trasmetteva solo canti popolari e inni al Colonnello, anche la connessione ad internet ha iniziato a funzionare solo in determinati orari della giornata e molto lentamente, come a voler dare tempo all’addetto ai controlli di verificare l’indirizzo ricercato e i contenuti delle ricerche via web. Il tutto in previsione della manifestazione che si stava preparando contro il regime di Gheddafi e per le riforme in Libia per il 17 febbraio, giorno della mia partenza verso Roma. Un rientro tanto atteso nonostante mi fossi trovata bene a Tripoli. I libici sono persone meravigliose che mi hanno saputo accogliere con gentilezza e tanta umiltà, ma non riuscivo a vivere imprigionata. Una sensazione di claustrofobia nonostante la relativa calma che si respirava, almeno fino a quel momento. Essere privati della libertà di parola, della libertà di essere informati su quello che succede nel mondo o semplicemente di quello che accade dove si vive, a pochi passi, in Piazza Verde o nella lontana Bengasi. Non è solo la mancanza di libertà di espressione. Ma è la negazione del diritto alla vita.
Il giorno prima del mio rientro a Roma, le strade del centro erano invase da manifestanti pro Gheddafi, che con la loro prepotenza cercavano di impaurire la gente facendo capire che il paese non può che essere nelle mani del loro amato Gheddafi. Ragazzi giovani e meno giovani su auto di grossa cilindrata che sfoderavano enormi gigantografie del loro amato leader sgommando a grandissima velocità in pieno centro e mettendo a dura prova la pazienza di anziani passanti e intere famiglie. Fino ad allora nessuno osava commentare almeno ad alta voce. Ma Tripoli non è Bengasi. In attesa che il vento di libertà tocchi anche la bella Piazza Verde. Un tempo Piazza Italia.