Mi capita di avere, senza mio merito e con grande mia soddisfazione, tanti amici, anche molto brillanti dal punto di vista intellettuale; per dirla come si usa pensare oggi in Italia, forse più dell’una che dell’altra parte politica, ma senza sicuramente senza preclusioni. Del resto di me stesso non saprei che dire, se ragionassi in termini di appartenenza all’una ed all’altra parte politica: certamente mi sento liberale e garantista, cattolico convinto ma rispettoso dell’altrui orientamento religioso e valoriale, europeista e solidarista, forse non esente da un certo snobismo intellettuale (l’altro giorno, assistendo ad una presentazione di un libro, mi sono sorpreso a pensare che ci fosse troppa  gente perché il tema potesse essere veramente interessante!), e così via con ogni altra forma di autocompiacimento (al quale, purtroppo non sempre riesco a sottrarmi). Dove collocare politicamente questa serie di  riferimenti non saprei dirlo: l’immagine convenzionale che ho di me è quella del cane sciolto, razza elettoralmente pericolosa e politicamente infedele.

Perciò, non mi sento di condividere il rilievo che mi è stato fatto di aver attribuito indistintamente a destra e sinistra gli odiosi populismi con cui me la sono presa nell’ultimo articolo scritto per questa piacevole rivista. Se ne valesse la pena, per ciascuno di essi saprei rintracciare le radici a destra o a sinistra; ma non ne vale la pena.

Per dimostrare però ai miei amici “di sinistra” anche la volontà di essere costruttivo (un certo pessimismo viene, anche fondatamente, attribuito a molte delle valutazioni che ho condiviso con voi), tenterò di delineare un percorso praticabile per far uscire “la sinistra” dalla gabbia dell’indignazione quotidiana in cui si sta cacciando (non ho ancora letto il libro di Stephane Hassel “Indignez vous!” che costituisce il sorprendente successo dell’editoria francese di questi tempi recenti; ma credo che esso non sia necessario ai nostri uomini di sinistra che da mesi traboccano indignazione inutile, che solo cementa la tenuta dell’odiato avversario; non sarà con le firme o con gli urli isterici che si sottraggono voti alla maggioranza, quand’anche si andasse a votare presto, e non credo!). Proviamo allora a ragionare in termini propositivi.

Quest’estate avevo salutato con molto favore il libro di Enrico Letta e Lucio Caracciolo “L’Europa è finita?” concludendo: “Ad Enrico Letta auguro di avere energie e coraggio per fare di questo tema la sua etichetta politica! E agli italiani di saperla far propria a dispetto dei gorgoglii delle pance!”: da allora non ho sentito parlare più di questo tema! Eppure, a sentire le retoriche della sinistra, le elezioni sono dietro l’angolo ormai da diversi mesi! Allora mi è sorto un dubbio: non sarà che, all’interno del PD, il tema non è giudicato (ci risiamo!) poco popolare? Poco compiacente con quel filone che lusinga la Lega promettendo appoggio al federalismo, senza valutarne appieno i costi e le implicazioni (come del resto si fece quando si modificò il titolo V della Costituzione)? O anche poco utile per la definizione di alleanze a sinistra?

Se cosi fosse – ma mi auguro che la distrazione sia solo imputabile al colmo di indignazione che ha pervaso la comunicazione politica dell’opposizione in queste settimane – sarebbe un’ennesima dimostrazione del terribile motto latino “quos Deus perdere vult, prius dementat”.

Bene, ora che l’indignazione è impantanata (forse, paradossalmente, per fortuna proprio dell’opposizione, come scrive Stefano Folli su Il Sole 24 Ore del 4 marzo) proviamo a pensare al progetto di fare dell’Europa “il manifesto” della linea politica della sinistra e di chi vorrà allearsi con essa, proviamo a pensare in grande anche nella scelta del candidato che potrebbe guidare una coalizione moderna, liberale (anche se non piace a Vendola), solidarista ed europeista. Ci provi Enrico Letta, che per tanti versi potrebbe farsi perno di un’aggregazione che sappia anche indebolire la presa elettorale della maggioranza pescando nel suo elettorato allergico ad ogni sinistrismo ideologico. Questa è la strada per proporre qualcosa, ad un tempo, di nuovo e di antico, ma anche per darsi un criterio politico e non solo tattico elettorale nella scelta delle alleanze!

Basta. Mi sono accorto di aver usato troppi punti esclamativi.

Per farvi sorridere, vi segnalerò un filone di riflessioni critiche sul tema del populismo: forse il tarlo della nostra cultura non è il populismo; forse il nostro male è che con quasi cento anni di ritardo ci siamo scoperti surrealisti.

Chi non ha presenti i quadri di quel sommo maestro del surrealismo che fu René Magritte: un uomo con la faccia di mela, una pipa con sotto scritto “Ceci n’est pas une pipe”, un pittore che dà vita ad un corpo mentre lo dipinge, un pesce morto con le gambe di una donna, un quadro che diventa una finestra, un uomo col naso che finisce in una pipa, una dama con il volto di viole, un seno di donna appeso col vestito in un armadio, e così via.

Il surrealismo, diceva – mi pare –  André Breton, è dar voce ad un flusso di linguaggio svincolato da qualsiasi censura logica, morale o sociale, un pensiero (credo nel senso dell’immaginazione ) espresso senza alcun controllo della ragione. Eccone tre esempi tratti dalla cronaca di questi giorni:

  • Un candidato non ha i requisiti per fare il direttore generale nel dissestato settore sanitario pugliese: “E non possiamo modificare la legge che stabilisce questi requisiti?  “(Vendola, intercettazioni)
  • Alle prossime elezioni potrei candidarmi, per dedicarmi alla politica ! (Lele Mora, in tv, non ricordo quando)
  • La Libia è in rivolta, i morti si contano a decine (di  centinaia, di migliaia, di milioni? Non ha importanza, per i nostri giornali!); c’è però una soluzione: “incoraggiare Gheddafi a fare le riforme!”  (D’Alema, a Il Sole 24 Ore, 20 febbraio)

Tutto qua: forse siamo solo surrealisti!