Uno degli aspetti più inquietanti di certo giornalismo è quello di giocare alla “moviola”: isolare un fotogramma da una sequenza, attribuirgli centralità, interpretarlo nella direzione desiderata e dedurne “la qualunque” senza alcun senso della proporzione: il dettaglio selezionato diventa il “tutto” e vive di vita propria cosicché -isolato dal contesto- non sia possibile percepirne il valore e la rilevanza in relazione al quadro di riferimento [di cosa si stava parlando, in che ambiente, perché, ecc.]. Mutuata dalla dinamica comunicativa dei social -per sua natura più puntiforme che contestualizzante- ne esce una comunicazione spesso deformata e fuorviante.
E’, ad esempio, il caso delle polemiche sull’abbigliamento di Zelensky alla Casa Bianca (irrilevante rispetto alla tragicità della situazione da affrontare).
E’ anche il caso -a mio giudizio- dell’episodio che ha visto coinvolto Romano Prodi durante la presentazione del suo ultimo libro. Come è noto, alla domanda della giornalista (Lavinia Orefici) che gli chiedeva cosa pensasse di una delle frasi del Manifesto di Ventotene citate alla Camera da Giorgia Meloni (“la proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio“), Romano Prodi si era spazientito avviando il seguente scambio di battute:
– “Ma che cavolo mi chiede? Io ho mai detto una cosa del genere in vita mia?“.
– “È un passaggio nel Manifesto di Ventotene”
– “Lo so benissimo signora! Mi creda, non sono mica un bambino!. Ma era nel 1941, gente messa in prigione dai fascisti… Cosa pensavano secondo lei, al trattato o all’articolo secondo della Costituzione? Ma il senso della storia ce l’ha lei o no?“
– “Volevo sapere cosa ne pensava visto che era stato citato”.
– “Allora le cito un verso di Maometto e lei mi dice cosa lei pensa di Maometto? – ha ribattuto Prodi – Questo è far politica in modo volgare, scusi“.
A scatenare la polemica non sono state però le parole di Prodi, ma il gesto con il quale -mentre esclamava risentito “Mi creda, non sono mica un bambino!” – ha toccato una ciocca di capelli della giornalista.
Non c’è bisogno di ribadire che i dettagli sono importanti: lo sono ma quando si tratta di dettagli intenzionali e oggettivamente significativi. Chi può -in buona fede- pensare che quel gesto rivelasse intenzioni aggressive o intimidatorie? Romano Prodi non ha certo bisogno di essere difeso, ma classificare il suo gesto come “comportamento violento”, chiamare in causa il “patriarcato inconsapevole di cui è intriso” e chiedersi se “avrebbe fatto la stessa cosa, se il giornalista fosse stato un uomo”… mi sembra davvero esagerato.
Per ricollocare il fatto nella corretta prospettiva mi sembra di non dover aggiungere nulla alla nota dello stesso Romano Prodi:
“Ritengo sia arrivato il momento di chiarire alcune cose rispetto a quanto accaduto a margine della presentazione del mio ultimo libro.
Il gesto che ho compiuto appartiene ad una mia gestualità familiare. Mi sono reso conto, vedendo le riprese, di aver trasportato quasi meccanicamente quel gesto in un ambito diverso. Ho commesso un errore e di questo mi dispiaccio. Ma è evidente dalle immagini e dall’audio che non ho mai inteso aggredire, né tanto meno intimidire la giornalista.
Questa vicenda mi offre l’occasione per una riflessione che forse è utile. Penso sia un diritto di ciascuno, non importa affatto quale ruolo abbia ricoperto nella vita, rivendicare la propria storia e la propria onorabilità e non accettare, come un destino inevitabile, la strumentalizzazione e persino la derisione dilaganti, anche grazie alla potenza della Rete. Come se un’intera vita non contasse, come se il futuro non esistesse“.