Se tanto si discute attorno alla possibile nascita del partito democratico è perché il bipolarismo ha bisogno di trovare un assetto più stabile e sicuro. E se, in questa cornice, si torna a discutere del ruolo dei cattolici è perché la loro cultura e la loro tradizione politica costituiscono una riserva importante per qualsiasi evoluzione del sistema democratico italiano. Senza il recupero di una posizione forte dell’area cattolico democratica si fa più difficile la costruzione di un nuovo partito a connotato riformista.
Cosa significa, tuttavia, pensare e proporre il rilancio del cattolicesimo politico? Basta osservare gli eventi per capire il grado di divisione che regna sul campo. Il convegno dei cosiddetti teo-dem – una peculiare espressione del rutellismo – ha innescato una polemica strisciante e pericolosa con l’area di matrice cattolico popolare. Alla ricerca di una linea di attacco, i responsabili di questa nuova corrente hanno persino rivendicato, contro gli eredi della tradizione comunista, le ragioni di una lunga esperienza che vince e s’impone nel duro confronto del Novecento. Come a dire, siamo noi gli autentici interpreti e continuatori della grande stagione democristiana!
S’intravede un disegno, più o meno limpido, che mira a unificare istanze e motivazioni diverse. All’intransigenza sui valori, si associa un’apertura incondizionata al partito democratico; alla difesa della funzione storica della classe dirigente cattolica, si giustappone la volontà e il desiderio di superare la tradizione del popolarismo sturziano, considerando obsoleto il bagaglio teorico e la condotta pratica di quanti si ostinano a riconoscersi nella formula del cattolicesimo democratico. Insomma, un approccio grintoso e scanzonato: niente vincoli, se non quelli dettati e imposti dall’osservanza di ciò che prescrive la dottrina cristiana sui temi eticamente sensibili.

La reazione dei popolari, da Castagnetti a De Mita, finora ha oscillato tra snobismo e irritazione. Dopo tanta enfasi sulla cosiddetta “contaminazione” tra laici e cattolici, l’unica novità che regala la fragile epopea della Margherita è la bizzarra duplicazione in chiave neoclericale della presenza cristiana. Sembra, in sostanza, che quanto più cresce la babele delle lingue, tanto più si confondono o si annebbiano le responsabilità del gruppo dirigente del partito.

Non sarebbe male se i popolari raccogliessero la sfida. Da più parti, oramai, si tende a porre sotto scacco la legittimità di una possibile continuazione della linea cattolico democratica. Contando sulla sponda dalemiana, Marini pensa di aggirare la questione attraverso un accordo preventivo che fissi l’equilibrio tra popolari e socialisti. Ma quanto regge questa prospettiva in assenza di un chiarimento sul profilo del nuovo soggetto politico e prima ancora sulla plausibilità di una scelta tanto impegnativa?
Alla sfida si risponde con l’indizione di una grande assemblea, avente il valore e il rango di un congresso, nella quale riformulare la prospettiva del popolarismo. Dire che è inutile, convince poco o nulla. Quel che sta avvenendo dovrebbe piuttosto favorire un’attenzione maggiore sui mezzi da adottare e le liturgie da rispettare nel momento in cui ci si accinge a declinare in modo nuovo la propria identità culturale e politica. Altrimenti, lacerando il filo della continuità di tutti gli atti che sottostanno alla odierna configurazione del popolarismo, si spalancano le porte a iniziative, pretese ed ambizioni di ogni tipo. Naturalmente in nome della comune ispirazione cristiana e scomodando all’occorrenza gli stessi padri nobili!
In verità, anche dopo Orvieto resta avvolta nella nebbia la strada che dovrebbe portare alla costituzione del partito democratico. Ciò nonostante si ripete a destra e a manca che il processo è ineluttabile. Forse lo sarà, ma a quale prezzo? Dopo che Ds e Margherita hanno fallito, almeno così si dice, quanto può essere valida una strategia che ripeta nella sostanza le stesse operazioni che hanno malamente determinato la genesi e lo sviluppo di questi due partiti? Qualche dubbio è lecito averlo.
Per questo è bene che i popolari continuino a riflettere a voce alta, giacché sconcerta l’ipotesi di ridurre il patrimonio di un grande movimento politico alla miserrima autodifesa di una tribù identitaria nel contesto di un generico, almeno per ora, aggregato riformista.