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Quando andavamo alle elementari i primi giorni di novembre erano molto attesi dagli scolari perché il grappolo di giorni festivi (1, 2 e 4 novembre) costituiva la prima sensibile pausa nell’anno scolastico, quasi un assaggio delle feste natalizie per le quali occorreva attendere ancora un paio di mesi.
Si tratta di tre festività molto sentite -anche se con accenti diversi in ciascuna regione- nella società di allora: la solennità di Ognissanti, la commemorazione dei defunti e la Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze armate (in breve: i santi, i morti e le forze armate). Un trittico di giornate festive ravvicinate: una religiosa, una tradizionale e una laica, così che ognuno potesse accentuare i toni che sentiva più propri. Oggi è considerato festivo solo il primo novembre, le altre due date sono state “ferializzate”, ma -ovviamente- non è a questo che mi riferisco quando parlo di “fatica di festeggiare”.
Questa fatica dipende da due ragioni: la progressiva privatizzazione dei sentimenti e il clima di crescente tensione e di preoccupazione per il futuro che questa stagione ci sta riservando.
La progressiva privatizzazione dei sentimenti è percepita da molti come una “moderna” evoluzione che ci affranca da comportamenti sociali -a volte mal sopportati- ritenuti datati o provinciali. Ma la festa -il festeggiare- è per sua natura una questione di interesse collettivo, sociale: “in senso antropologico, la festa è un comportamento o un’attività sociale, sacra o profana, ma sempre rituale, ossia rispondente a norme tradizionali e connessa a tempi ciclici o episodici, talvolta piacevoli, talvolta luttuosi…” -definisce la Treccani- insomma si festeggia insieme, non si festeggia da soli! Mentre oggi -soprattutto in città- di rito collettivo c’è solo la fila al supermercato [salvo consegna a domicilio], per tutto il resto ognuno sembra bastare a se stesso. Riuscire a organizzare momenti collettivi di festa è faticoso, è un po’ remare controcorrente; eppure continuo a pensare che sia importante, che riuscire a festeggiare insieme sia il migliore antidoto all’individualismo e alla paura.
La crescente tensione e preoccupazione per il futuro ha ormai contagiato tutti gli ambiti. L’offerta è molto ampia: crisi climatica come un conto alla rovescia inarrestabile, approvvigionamento energetico esposto al capriccio dell’emiro o del tiranno di turno, immigrazione tragicamente vissuta come invasione, fragilità degli equilibri internazionali, incertezza economica, futuro lavorativo dei nostri figli e nipoti sempre più confuso… Il dramma è che, oltre all’offerta, sembra incredibilmente essere molto ampia anche la domanda: quasi che tutte queste incertezze la gente le cerchi, le amplifichi e trovi in esse -nella loro apparente ineluttabilità- l’alibi per giustificare il ripiegamento su se stessa, giudicando ormai inutile cercare insieme di trovare soluzioni o almeno di affrontarle in modo condiviso. E, se tutto questo non bastasse, c’è ora il clangore della guerra che sembra farsi ogni giorno più vicina, ogni dichiarazione più minacciosa, ogni telegiornale più cruenta.
Chi -in questo clima- riesce ancora a festeggiare? Cosa c’è da festeggiare? Non è solo faticoso, sembra quasi una cosa fuori posto. Eppure.
Eppure siamo qui; siamo i figli di coloro che hanno attraversato guerre, povertà, fame, eppure ce l’hanno fatta; di coloro che hanno vissuto situazioni terribili eppure sono riusciti a trovare qualcosa che li facesse sentire uniti e consentisse loro di sperare; di coloro che poi sono dovuti andar via eppure ci hanno consegnato un futuro che è stato ed è il nostro presente.
Forse è questa ostinata speranza la cosa più preziosa che ci hanno consegnato.
Forse è soprattutto per questo che il 2 novembre dovremmo ringraziarli.
E festeggiare.