Decapitato dall’ISIS un altro prigioniero. È il quarto, il quinto?… non ricordo.
Naufragato un altro barcone nel canale di Sicilia. È il decimo, il centesimo?… non ricordo.
Governo: il decreto della svolta. È il duecentesimo, il millesimo?… non ricordo.
In fuga dalla Siria cercano rifugio. Sono un milione, tre milioni?… non ricordo.
A tutto -si sa- si fa l’abitudine e dicono che anche ad Auschwitz, la sera, i prigionieri giocassero a carte. Dicono anche che l’abitudine sia un ottimo analgesico ed è grazie ad essa che riusciamo a sopportare quello che noi stessi -inizialmente- avevamo giudicato insopportabile.
Gli analgesici sono utili ma è meglio non abusarne. Così come nel corpo il dolore funziona da sistema d’allarme che ci avverte e ci spinge a intervenire per evitare guai peggiori, così lo sconcerto, la paura, il disagio (e a volte persino la noia) che ci provocano le notizie che apprendiamo dovrebbero spingerci a reagire, a fare qualcosa, a cambiare qualcosa….
Gli analgesici (abitudine compresa!) non rimuovono le cause del dolore e -a lungo andare- ci trasformano in complici della malattia.
Le emozioni, il dolore, il disgusto, la delusione, la preoccupazione non sono nostri nemici, sono amici da curare e da frequentare assiduamente per cercare soluzioni possibili, sono l’ultima barriera prima della insensibilità e della disperazione.
E a noi interessano le soluzioni possibili: di quelle falsamente risolutive e delle rassegnazioni a buon mercato non sappiamo che farcene.
Si può iniziare aprendo una porta. Come hanno fatto i tanti volontari che hanno aderito al progetto “Welcome” del JRS in Francia, dando sostegno e ospitalità nelle proprie case a rifugiati e richiedenti asilo (LINK).
Sembra uno spiraglio, ma è molto di più.
Perché dall’aprire una porta all’abbattere ostacoli in apparenza insormontabili il salto non è poi così lungo.