“In Europa -intorno agli anni ’80- si è raggiunta la più alta sintesi tra capitale e lavoro. Poi -soprattutto a causa della globalizzazione- questo equilibrio ha cominciato a deteriorarsi in senso antidemocratico”. Questa affermazione di Fausto Bertinotti, nel corso del recente dibattito con Enrico Letta organizzato da Praxis, mi ha spinto a riflettere sul significato e sul limite degli equilibri che cerchiamo di raggiungere e di mantenere.

L’equilibrio al quale Bertinotti si riferiva è quello tra gli interessi del mercato e quelli di chi in quel mercato lavora, interessi per definizione opposti che hanno però trovato nelle forme più avanzate di democrazia (appunto quelle europee) il linguaggio per confrontarsi e le modalità istituzionali per accordarsi. Grazie a questa dinamica le parti hanno progressivamente trovato nuovi equilibri in una sintesi sempre più avanzata, riuscendo in questo modo a dare il massimo possibile dei diritti a chi lavora e il massimo possibile del profitto a chi investe. Questa evoluzione faticosa, ma virtuosa, si è interrotta -dice Bertinotti- con l’avvento della globalizzazione, che ha cambiato le forze in gioco e ha gradualmente sostituito la ricerca dell’equilibrio con una resa incondizionata alle dinamiche del mercato.

L’equilibrio di una situazione dipende dai confini della situazione stessa.

Assegnare metà di un panino ciascuno è equilibrato se il panino è uno e le persone sono due, non lo è più se le persone sono diventate tre e il panino è sempre uno.

La globalizzazione, insomma, ha alterato i confini della situazione e ha reso non più difendibile l’equilibrio raggiunto. Da una parte e dall’altra sono andate distrutte le rendite di posizione: difficile difendere il diritto al mantenimento del livello salariale quando c’è chi è disposto a fare quello stesso lavoro alla metà del costo; difficile difendere il prezzo di un prodotto quando da altri mercati c’è chi viene a venderlo alla metà!

Ma questa globalizzazione che è venuta a rompere e uova nel paniere non è una malattia aliena, è solo l’effetto dell’accesso alla tecnologia, all’informazione, alla mobilità (in sostanza al sapere e alla ricchezza) di parti di mondo che prima ne erano escluse. Ovviamente sono cambiati i numeri, le regole, i confini e i giocatori. Quella “alta sintesi” tra capitale e lavoro raggiunta in Europa negli anni ’80 era una partita giocata in uno specchio d’acqua limitato: ora è diverso, ora si gioca in mare aperto, si gioca a tutto campo (e spesso senza arbitro).

Non credo che negli anni ’60 gli operai marocchini non sapessero che gli operai tedeschi guadagnavano più di loro e dubito che gli imprenditori di Treviso non sapessero che gli operai rumeni costavano meno di quelli veneti; ma negli anni ’60 a un operaio marocchino non sarebbe mai venuto in mente (e comunque non ne avrebbe avuto la possibilità) di andare a lavorare ad Amburgo e a un imprenditore di Treviso non sarebbe mai venuto in mente (e comunque non sarebbe stato economicamente sostenibile) di delocalizzare la sua fabbrica a Timisoara.

Oggi tutto questo è possibile: può essere conveniente delocalizzare in Argentina o venire da Buenos Aires a fare l’infermiera a Roma.

E’ difficile costruire equilibri, ma ancora più difficile è accettare che nessun equilibrio è garantito per sempre.

Non so se nei racconti ai nostri nipoti descriveremo la globalizzazione come un terribile disastro o come un entusiasmante avventura, ma in ogni caso quando piove è meglio prendere l’ombrello e uscire che restare a casa a maledire il tempo.