Dicevano i nostri vecchi che «la matematica non è un’opinione», sicuri che le verità indiscutibili non possono essere scalfite da ondeggianti valutazioni personali, spesso dovute a emozioni interne e collettive. Temo che quella sicurezza non abbia più spazio nell’attuale dinamica culturale. Se qualcuno si esponesse a dire che due più due fa quattro, si troverebbe subito di fronte qualcun altro che direbbe «questo lo dice lei», quasi insinuando il dubbio che non si tratta di una verità, ma di una personale opinione. Non ci sono verità che non possano essere messe in dubbio: tu la pensi così, ma io la penso al contrario e pari siamo. Non ci sono santi, dogmi, decreti, ricerche di laboratorio, tabelle statistiche; vale e resta dominante il primato dell’opinione personale.» Così Giuseppe De Rita -nel suo recente articolo sul CdS “La potenza dell’opinione, inarrestabile e preoccupante”- fotografa l’imbarazzante stallo comunicativo in cui ci siamo cacciati.
Cerchiamo faticosamente di capire le cose: differenziamo le fonti per non essere vittime dell’autoconferma delle nostre convinzioni, ci sforziamo di comparare i giudizi divergenti perché sappiamo che le ragioni non sono mai da una parte sola, tentiamo di tenere distinti i fatti dai giudizi e di separare le emozioni dalla ragione… insomma facciamo una fatica enorme per farci una opinione equilibrata e ci ritroviamo persi in un chiassoso mercato nel quale ciascuno grida per vendere la sua merce denigrando quella altrui e nel quale l’ansia di spuntarla nel duello conta molto di più che avvicinarsi alla obiettività e a un giudizio fondato.
Una deriva che non riguarda solo la guerra in Ucraina, che comprensibilmente tiene banco in queste settimane, ma è diventata una questione di metodo: le opinioni non sono più a valle dell’analisi -come sarebbe ragionevole- ma sono a monte. In questo rumoroso mercato in cui è diventato assoluto il primato dell’opinione, questa non si nutre più di deduzioni e di approfondimenti, ma si rafforza solo per contrasto. Per affermarsi ha bisogno del conflitto, ma il prezzo di questi estenuanti duelli finisce per essere -paradossalmente- l’inconcludenza, l’incapacità di incidere sulle decisioni. Come ha scritto Nadia Urbinati su “Domani”, quando seguiamo un talkshow “pensiamo di avere un dibattito, ma abbiamo una simulazione e ce la facciamo bastare perché, per quello a cui serve, la simulazione del dibattito è più che sufficiente, è l’equivalente del wrestling rispetto alla lotta vera, per questo quel dibattito è, in sé, irrilevante.”
Il rischio è che la stanchezza ci renda refrattari all’approfondimento e al confronto e ci spinga a rinunciare del tutto a capire. Dobbiamo diventare più selettivi nel decidere cosa leggere e chi ascoltare, più attenti alla competenza e più esigenti sulla concretezza delle conclusioni. Nessuno pretende la verità assoluta, ma pretendere che due più due faccia sempre quattro senza ridiscuterlo ogni volta, penso che ce lo possiamo permettere.