Mai così spesso come in questo periodo -con la consueta saggezza del senno di poi- viene citato il celebre discorso di Churchill dopo il “patto di Monaco”, firmato da Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia il 30 settembre del 1938: “Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra.“.

Il contesto è ben noto: dopo il proclama con cui Hitler pretendeva l’annessione dei Sudeti -al tempo territori cecoslovacchi, ma con una forte percentuale demografica di origine tedesca- il premier inglese Chamberlain decise di incontrare, a Monaco di Baviera, lo stesso Hitler e i primi ministri di Francia (Daladier) e Italia (Mussolini). I quattro firmarono un patto che, sostanzialmente, accettava l’annessione dei Sudeti al Terzo Reich nella convinzione che Hitler si “accontentasse” di quella concessione e venisse così scongiurato un più grande conflitto. Purtroppo, come previsto da Churchill, gli accordi del ’38 non vennero rispettati e l’espansionismo tedesco proseguì. Hitler, convinto di poter procedere senza ostacoli, invase la Boemia e la Moravia fino a raggiungere la Polonia il 1° settembre 1939, dando inizio alla seconda guerra mondiale.

Appena una settimana prima il papa Pio XII nel radiomessaggio del 24 agosto, supplicava -inutilmente- i governi europei: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra. Ritornino gli uomini a comprendersi. Riprendano a trattare. Trattando con buona volontà e con rispetto dei reciproci diritti si accorgeranno che ai sinceri e fattivi negoziati non è mai precluso un onorevole successo. E si sentiranno grandi —della vera grandezza— se imponendo silenzio alle voci della passione, sia collettiva che privata, e lasciando alla ragione il suo impero, avranno risparmiato il sangue dei fratelli e alla patria rovine.».

La riflessione sulla suggestiva affermazione di Churchill deve però andare oltre il parallelismo con l’aggressione di Putin all’Ucraina (…anche perché -in questo caso- andrebbe ribaltata: abbiamo scelto la guerra e -dopo le ultime decisioni di Trump- avremo il disonore!). Quella affermazione deve piuttosto spingerci a riflettere sulla scelta -che spesso ci troviamo a dover fare in tutti i contesti- tra il compromesso (a volte anche sul piano dei principi) per cercare di evitare il conflitto e la fermezza che non teme il conflitto pur di salvare il principio.

Purtroppo non è possibile sapere con certezza quale delle due opzioni sia preferibile. Ragionando teoricamente -a bocce ferme (e a piedi caldi!)- non c’è dubbio che difendere il principio morale e il diritto giuridico appaia la scelta più cristallina, ma -nella storia degli uomini e nella quotidianità della vita- possiamo trovare molte situazioni nelle quali aver scelto il compromesso o la mediazione ha effettivamente evitato un conflitto dalle conseguenze imprevedibili e altrettante situazioni nelle quali l’illusione che il compromesso/mediazione riuscisse a scongiurare il conflitto non è invece riuscita nel suo intento, lasciandoci il rimorso di non aver fatto la scelta giusta e la convinzione che una maggiore fermezza avrebbe invece favorito un esito diverso e migliore.

Purtroppo non esiste un “ricettario” con le risposte giuste per ogni situazione: a volte è l’atteggiamento disponibile e dialogante che paga di più ed evita il peggio (ovviamente se accettato da entrambi i contendenti!), a volte è invece proprio la risoluta fermezza e l’intransigenza su punti “non negoziabili” ad essere efficace e ad evitare il conflitto (a meno che -ovviamente- non sia il conflitto stesso l’obiettivo di uno o di entrambi i contendenti). Dobbiamo abbandonare il mito della formula magica e prenderci di volta in volta la responsabilità di scegliere in quel momento, in quella specifica situazione, l’atteggiamento che giudichiamo migliore. Due buone strategie per dare alla scelta un maggior respiro e maggiori possibilità di successo sono: “ampliare” i termini in cui leggere la tensione (evitando la focalizzazione su un punto specifico di attrito) e “coinvolgere” nella decisione da prendere il maggior numero possibile di soggetti e di istituzioni (evitando la china pugilistica dello scontro uno contro uno).

Perché ci è così difficile ammettere che -superata la eccitante fase adolescenziale dei “senza se e senza ma”- la risposta sta proprio dentro quei “se” e quei “ma”, dentro la fatica di ragionarci, dentro la difficoltà di capirli e la responsabilità di scegliere senza certezze garantite? L’adolescenza è fantastica, ma la regressione adolescenziale è patetica.