Proseguiamo il nostro viaggio verso la chiarezza sullo stato di salute del nostro amato Paese: oggi rifletteremo un po’ insieme sulla cultura .

Cominciamo dalla base, decisiva come tutte le basi, dalla scuola: In una società come quella Italiana, che pensa all’oggi guardando sempre meno al proprio futuro, più brava nel presente piuttosto che a programmare nel lungo periodo il proprio agire, anche la funzione educativa sembra instradata verso un destino di progressivo depotenziamento . Queste parole aprono il capitolo sui processi formativi del rapporto 2009 del Censis, un istituto che non può certamente essere accusato di pessimismo o di disfattismo. Pochi concetti, sempre attinti dallo stesso rapporto: la quota di spesa pubblica destinata all’istruzione in Italia è la più bassa nei Paesi dell’Ocse (la posizione migliora un po’ se considerata in termini di percentuale del PIL); la spesa per allievo è superiore solo a quella della repubblica Ceca e della repubblica Slovacca, essendo pari ad 1/3 di quella americana e a poco meno della metà di quella inglese.

Le classifiche PISA (Program for International Students Assessement) ci pongono costantemente ben al di sotto delle medie OCSE (i dati possono essere consultati sul sito apposito): in matematica, per esempio, si stima che il ritardo medio delle competenze di un quindicenne rispetto ai suoi coetanei dei paesi dell’OCSE equivalga a un anno di istruzione; il 60% dei nostri quindicenni scolarizzati non conosce le ragioni dell’alternanza fra il giorno e la notte; nella comprensione del testo letto oltre il 50% dei nostri ragazzi è al di sotto del livello medio sempre dell’area OCSE;

Del resto per capire lo stato dell’istruzione pubblica senza andare lontano, basta avere una conoscenza anche indiretta dello stato delle nostre scuole: perfino la carta igienica manca in molte scuole Italiane.

La presenza di Università Italiane nelle classifiche internazionali sulla qualità della formazione sono sconsolanti (vedasi il sito Webometrics Ranking of World Universities): nelle prime 100 al mondo ce ne è una solo Italiana e nelle prime 100 Europee solo 5.

Andiamo avanti: passiamo alla Ricerca. Nei Paesi dell’Unione Europea solo Grecia, Portogallo e Repubblica Slovacca destinano percentuali del PIL inferiori a quella Italiana alla ricerca e allo sviluppo.

Passiamo ora alle eccellenze nella cultura: a fronte dei 160 premi Nobel americani, dei 110 inglesi, dei 94 tedeschi, dei 44 francesi, dei 25 svizzeri e dei 21 russi, l’Italia ha avuto solo 20 Nobel, di cui 6 per la letteratura (l’ultimo dei quali nientemeno che a Dario Fo nel 97, dopo Montale, Quasimodo, Deledda, Pirandello e Carducci), e compresi quelli assegnati ad Italiani per ricerche compiute all’estero ed uno per la pace nel 1907.

Basta infine dare un’occhiata a romanzi, film di produzione Italiana e programmi televisivi per rendersi conto dello stato della nostra cultura umanistica diffusa; non servono, qui, commenti, basterà pensare solo alcuni fra i protagonisti degli “eventi” di maggior successo: preferisco non fare i nomi, alcuni dei quali mi vergogno solo di aver sentito nominare. In una “popolare” trasmissione televisiva, Leonardo ha prevalso a fatica sulla cantante Laura Pausini (forse molti avranno pensato di votare per l’allenatore del Milan anziché per l’uomo di Vinci).

Dopo Fellini, quale altro grande autore cinematografico di livello culturale internazionale abbiamo avuto? E dopo Pirandello, quale altro grande autore teatrale di fama mondiale?

Questo è lo stato della nostra cultura, d’eccellenza e diffusa. Con questa dobbiamo fare i conti, da questa dobbiamo ripartire.

Come?

Investire nel cosiddetto capitale umano, inteso per tale il patrimonio di abilità, capacità tecniche e conoscenze di cui sono dotati gli individui; e, perché l’investimento abbia senso (anche economicamente), assicurarne la distribuzione quanto più larga possibile fra le classi sociali indipendentemente dal reddito familiare. E quindi, a tutti i livelli, studiare e far studiare molto di più, valorizzare il merito, selezionare i percorsi scolastici, tutelando e migliorando anzitutto la cultura diffusa ma creando nel contempo scuole d’elite per formare la classe dirigente, far lavorare con tanti compiti a casa, non dar tempo di vedere la televisione a chi vuole andare avanti nella scuola, togliere anche un euro di contributo a film stupidi e volgari secondo il giudizio (inappellabile) di una commissione severa, chiudere la televisione di Stato se rincorre quella commerciale, licenziare giornalisti che ignorano i congiuntivi o che pronunciano l’inglese come asini, etc.etc..

Per fare questo occorre anzitutto investire molto di più nella scuola (cioè sul futuro dei nostri figli e nipoti), ad esempio:

• stornando gli stanziamenti per cose che non ci possiamo permettere (esempio: missioni militari all’estero, proprie di grandi nazioni quali noi non siamo o pensioni ad età che non trovano paragone all’estero);
• riducendo progressivamente il numero delle province ed adibendo il personale che queste occupano al funzionamento delle scuole o dei musei;
• aumentando le tasse scolastiche e universitarie ma migliorando il rendimento economico dell’istruzione (cioè aumentando il differenziale retributivo a favore di chi è laureato);
• riducendo gli sprechi della sanità diminuendo il numero degli ospedali improduttivi;
• alienando quelle residue imprese pubbliche che non ha senso mantenere, come le tre reti della televisione di Stato a rimorchio di quella commerciale, e devolvendo il canone televisivo al finanziamento della scuola;
• istituendo una tassa apposita dedicata al finanziamento dell’istruzione (un piccolissimo prelievo a favore dell’istruzione su ognuno dei 9.000.000 di biglietti delle partite di calcio o sui 100.000.000 di biglietti per il cinema che ogni anno sono venduti in Italia, aiuterebbe almeno come segnale);
• tassando pesantemente i lussi più evidenti (dai SUV alle barche);

e così via, stringendo la cinghia dei cittadini di oggi a vantaggio di quelli di domani. Come si vede le idee potrebbero non mancare, se solo si volesse por mano all’opera.

Si dirà: ma allora, nuove tasse? Beh! Temo di sì, almeno nel breve; però voglio segnalare una cosa: l’effetto dell’investimento in capitale umano si può anche valorizzare in termini economici (si veda l’ottimo volumetto scritto dal capo dell’ufficio studi e vice direttore generale della Banca d’Italia, Ignazio Visco, Investire in conoscenza , edizioni Il Mulino, dal quale ho tratto alcuni dei dati qui forniti): un suo aumento equivalente ad un anno di istruzione in più per la media dei lavoratori comporterebbe un aumento del prodotto pro capite del 5%!

Sarà per questo che il nostro PIL negli ultimi anni è cresciuto meno di quello dei Paesi con cui amiamo confrontarci?