Più stato e meno mercato” o “Più mercato e meno stato”? A parte l’uovo e la gallina, poche contrapposizioni appaiono insanabili come il dilemma stato/mercato. Non solo le rispettive “dottrine” fanno a gara per identificare negli eventi economici conferme della propria posizione e smentite di quella avversa, ma -non sempre confessata- dietro ciascuna delle due si staglia l’ombra di ingombranti ideologie che continuano ad essere -reciprocamente- il vero bersaglio delle ostilità. Interessanti e rivelativi gli aggettivi e le locuzioni che colorano le reciproche accuse: il mercato è sempre “cinico”, lo stato è sempre un “carrozzone”, il profitto è sempre “sfrenato”, il pubblico è sempre “corrotto”, il mercato “se ne frega di chi non ce la fa” e lo stato “accumula debiti fregandosene di come e da chi verranno pagati” e così via.

Non credo che l’approccio giusto sia quello di contrapporre stato e mercato come se dovessero contendersi lo stesso terreno. Ritengo invece che stato e mercato debbano giocare ruoli diversi: sicuramente confinanti, con alcune inevitabili sovrapposizioni (una su tutte: la fiscalità), ma sostanzialmente differenziati e complementari. I problemi sorgono e si acutizzano quando uno dei due pretende di giocare il ruolo dell’altro, quando lo stato pretende di sostituirsi al mercato soffocandone il dinamismo e alterandone sistematicamente il funzionamento o quando il mercato pretende di muoversi esclusivamente secondo le sue esigenze, pretendendo di estendere la sua legittima autonomia sul piano economico/produttivo anche su quello delle funzioni regolatrici. 

Ci sono ambiti in cui lo stato può e deve intervenire a tutela di beni di carattere generale (ad esempio: le regole della sicurezza sul lavoro, le misure di sostegno all’inclusione sociale, il supporto alla mediazione tra le parti sociali nelle dinamiche contrattuali) e nelle situazioni di emergenza (ad esempio: durante la pandemia), tuttavia deve evitare con ogni attenzione di sostituirsi al mercato, anzi è suo compito stimolarlo, facilitarlo -semplificando il più possibile la burocrazia-, renderlo più competitivo. Se dovessi dirlo in estrema sintesi direi dunque “Più stato e più mercato”, facendo prevalere la logica della complementarietà su quella del conflitto.

Sono consapevole che, nella pratica, i ruoli non sono sempre così nitidi e complementari. So quanto il confine tra la definizione delle regole e l’invasione di campo sia spesso sfuggevole, quanto gli adempimenti richiesti per dimostrare il rispetto delle norme si tramutino a volte in sterile burocrazia formale e quanto i tentativi di trovare scorciatoie finiscano per trasformare la relazione tra lo stato e le aziende in un gioco di guardie e ladri. Ma è proprio questa la sfida: evitare che la cattiva gestione delle regole ne distrugga il senso, che le esagerazioni da una parte e dall’altra paralizzino il sistema e che la sfiducia reciproca favorisca gli arroccamenti e renda impossibile la collaborazione.  

La tempesta provocata dalla pandemia che stiamo attraversando ha costretto sia i “giocatori” che i “regolatori” ad abbandonare antiche abitudini e ad uscire allo scoperto correndo rischi e affrontando scelte gravi e inconsuete: aprire o chiudere? prima la sicurezza sanitaria o l’economia? rischiare di morire di Covid o di fame?  Non è facile per nessuno prendere queste decisioni e trovare la misura giusta. E’ stata (ed è ancora) l’occasione per rimettere a fuoco i ruoli di ciascuno, consapevoli che, se basta un invisibile virus a far saltare sistemi ed equilibri consolidati da decenni, è forse più intelligente concordare le regole e giocare al meglio la stessa partita che continuare all’infinito un tiro alla fune che finisce per penalizzare tutti.