Sui giornali di questa settimana abbiamo letto: “Rissa sul gommone per motivi religiosi, gettati in mare dodici cristiani”. A parte la difficoltà a credere che su un’imbarcazione precaria, in situazione di pericolo, una rissa possa scatenarsi per motivi religiosi, quello che mi ha colpito in un titolo così approssimativo è la propensione a ritenere comunque la religione l’elemento dominante nella interpretazione del conflitto.
Oltre ad essere cristiane e musulmane, quelle persone erano anche uomini e donne, migranti in fuga, Ghanesi, Nigeriani, Senegalesi, Maliani, Ivoriani, di diverse tribù ed etnie anche all’interno del loro paese; persone disperate e arrabbiate che, avendo pagato cifre altissime, stavano rischiando di morire e non arrivare nemmeno a vedere Lampedusa. La loro identità religiosa è solo uno dei loro connotati, ma è quello più facile da utilizzare per ignorare tutti gli altri.
I cristiani non sono una razza, i musulmani non sono una razza: sono persone che credono ad una religione in base alla quale interpretano la loro esistenza.
L’identità religiosa si sceglie, non si subisce;
ad essa si aderisce per convinzione, non si appartiene per nascita;
è nella storia di una persona, non nel suo sangue;
L’identità religiosa -insomma- non è un connotato etnico, è un connotato di libertà.
Utilizzare l’identità religiosa per semplificare la lettura della complessità non è un buon servizio né alla verità, né alla soluzione dei conflitti.
Uccide più un titolo che un editoriale e le parole usate male avvelenano il pozzo della credibilità.