ASCOLTA L’ARTICOLO QUI
C’è un modo di dire anglosassone piuttosto comune che recita «Can’t See the Forest for the Trees» [letteralmente “Non riuscire a vedere la foresta a causa degli alberi”] per dire di qualcuno troppo preso dai dettagli per riuscire a cogliere una situazione nel suo insieme e a situarla in una prospettiva più ampia. Si tratta di uno “strabismo” tanto più frequente quanto più i singoli fatti sono clamorosi e -proprio per questo- moltiplicati e riprodotti costantemente dalla informazione giornalistica e televisiva.
In un recente articolo sul conflitto in Israele e Gaza un giornalista* iniziava il suo pezzo scrivendo: “L’altro giorno ho chiesto a uno studente se conosceva gli accordi di Oslo e l’ho visto perso, dentro una nebbia talmente fitta che mi sono sentito male per lui. È la stessa nebbia che avvolge tutti, chi più chi meno, perché l’informazione senza conoscenza confonde e basta.”. Condivido pienamente questo pensiero e la necessità di distinguere l’informazione dalla conoscenza, che non è mai la semplice somma delle informazioni che possediamo, ma deriva dalla capacità di interpretarle, confrontarle, dare loro il giusto peso e -soprattutto- cogliere e definire i nessi che collegano le une alle altre. Senza queste capacità non serve a niente accumulare e moltiplicare le informazioni: non è una questione di quantità di dati ma di qualità di analisi, altrimenti aumenta solo la confusione.
Lo stesso giornalista osserva che oggi la situazione del conflitto appare senza vie d’uscita, ma in Medio Oriente la pace si nasconde spesso dentro la guerra, ed è per questo che nessuno la vede arrivare. Successe tra Egitto e Israele, tra Giordania e Israele, successe a Oslo e c’è solo da sperare che possa succedere ancora. Troppo spesso la politica e la diplomazia hanno mostrato di non saper vedere oltre la desolazione del presente, tuttavia possibili orizzonti di soluzione si sono profilati -anche se mai raggiunti compiutamente- quando l’intuizione e la disponibilità di qualcuno ha prevalso sulla ottusa coazione a ripetere. Ad esempio il percorso avviato dal presidente egiziano Sadat che -dopo la guerra del Kippur (1973)- intravvide la necessità di una pace con Israele; quello che portò agli accordi di Oslo (1993) tra Rabin e Arafat, che videro la possibilità di un’intesa laddove altri non la vedevano. Sadat e Rabin pagarono con la vita questa loro intuizione e disponibilità.
Anche in guerra esistono sempre più cose di quelle che mostrano gli occhi e appariranno quando sarà chiaro a tutti (si spera presto) che la soluzione non può essere solo militare.
Per conoscere occorre informarsi, ma le sole informazioni non bastano: occorre ripercorrere gli eventi trascorsi, identificare i fili rossi che li hanno attraversati e non smettere mai di credere che possano esistere vie di uscita concrete e percorribili, anche quando non le vediamo. Senza questa speranza (e l’impegno a renderla concreta) finiremmo per fare la fine di Sisifo, condannato per l’eternità a spingere un masso fino alla sommità di un monte dal quale questo rotolava inesorabilmente a valle, costringendolo a ricominciare da capo l’inutile impresa.
(*) Fernando Gentilini, Medio oriente la pace oltre l’invisibile, Repubblica 10/11/23