Ogni anno sempre più famiglie in Italia si trovano a fare i conti con il dramma provocato dall’insorgere di una malattia cronica di un congiunto o di una persona cara.
Smarrimento, incertezza, paura, sono le prime reazioni, inevitabili. Cui segue però una condizione, non solo soggettiva, ancora più insidiosa: la solitudine, la sensazione di abbandono.
“A chi potrò rivolgermi?”, “Di quali cure continuative avrà bisogno mia madre?” . Non sono certo domande scontate, e non è possibile immaginare una soluzione che comporti un ricovero sine die in un ospedale pubblico della persona malata. Il termine tecnico per definire questa delicatissima fase di accesso al percorso di cura è “presa in carico”. Chi potrà accompagnare i malati e le loro famiglie in questo momento cruciale? I servizi sociali del Comune? Le ASL territoriali? Nessuno?
Nel 2003 un gruppo di medici di base del IV Municipio (Colle Salario, Fidene, Talenti e Bufalotta) ha trovato una risposta coraggiosa e innovativa a queste domande, creando il primo “Ospedale virtuale” d’Europa. L’iniziativa è nata per impulso della cooperativa sociale “Roma medicina”, in collaborazione con la Federazione dei medici di medicina generale del Lazio (Fimmg), ed è resa possibile da un accordo annuale stipulato tra la cooperativa e la Asl Roma – A.
L’idea è semplice quanto geniale. “L’ospedale virtuale è un ospedale domiciliare – ha affermato Alessandro Galassi, uno dei medici di base che ha aderito al progetto – e la corsia di ospedale altro non è che la camera da letto del malato”. Un équipe multidisciplinare (geriatri, internisti, infermieri, fisioterapisti, operatori socio-assistenziali, psicologi, assistenti sociali) ruota intorno al paziente e alla sua famiglia, garantendo un’assistenza continua e di elevato livello. L’accesso al “ricovero” è altrettanto semplice. Niente code sfiancanti agli sportelli della Asl o ai servizi sociali dei municipi, per richiedere servizi che troppo spesso non arrivano mai. È lo stesso medico di base, “il medico di famiglia”, che entra nell’abitazione del paziente affetto da gravi patologie croniche ed effettua una valutazione “multidimensionale”, in grado cioè di tenere in considerazione fattori non solo sanitari ma anche sociali, economici. Il quadro di insieme viene quindi composto in tempo reale in una cartella informatica, la scheda CareSis – Semfa, inserita immediatamente in un database e comunicata da un medico coordinatore al Centro di Assistenza domiciliare (CAD) della Asl Roma-A. Di lì a 24 ore, il CAD sulle base della scheda è in grado di autorizzare il ricovero del paziente, creando così un “Posto Letto Virtuale”. Nelle 48 ore successive ha quindi inizio il percorso assistenziale, calibrato sulle effettive condizioni del paziente e in grado di integrare la fondamentale collaborazione delle famiglie.
Tutto questo avrà un costo stratosferico? Niente affatto. Le cure per ogni paziente dell’Ospedale virtuale costano in media 65 euro al giorno, contro i 650-700 euro giornalieri richiesti da un ricovero ospedaliero. Questo vuol dire che con i soldi necessari ad assistere un paziente in corsia se ne possono seguire 10 a casa. Senza contare i benefici indiscutibili comportati dal non separare una persona fragile, molto spesso anziana, dai propri affetti, dalle proprie abitudini. Il che, si sa, nei casi di patologie croniche come ad esempio l’Alzheimer costituisce la parte più significativa della terapia.
E le cure erogate al paziente sono numerose e di elevatissimo profilo: si va dal fare la barba a curare le piaghe da decubito con macchinari di avanguardia (VAC), dall’assicurare assistenza psicologica fino ad aggiornare la cartella informatica ogni giorno attraverso il ricorso al sistema della telemedicina.
Tutto bene allora? Purtroppo no. Attualmente l’esperienza dell’Ospedale virtuale è limitata al solo municipio IV (220mila abitanti, di cui 150 all’anno hanno avuto accesso al servizio per una spesa complessiva di circa un milione di euro). E la convenzione con la Asl Roma-A, che rende possibile l’iniziativa, è scaduta lo scorso 31 dicembre.
“Il progetto è partito nel 2003 con 40 posti letto portati in seguito, grazie al successo riscosso, a 60. Oggi la Asl vuole rivedere la convenzione al ribasso, riducendo a 21 il numero di letti”, ha commentato Galassi durante l’incontro “Modelli di integrazione socio-sanitaria”, organizzato lo scorso mercoledì da PRAXIS a Roma.
Si tratta di un altro dei tagli selvaggi operati dalla presidente Polverini per cercare di ripianare il disastroso bilancio della sanità regionale? Non sembrerebbe. “Parte dei fondi recuperati sarà dedicata alla gestione dei codici bianchi (cioè quelli ritenuti di gravità trascurabile, NdR) negli ospedali Policlinico Umberto I e San Giovanni”.
Forse quello che si vuole ribadire, non dando credito a un caso di eccellenza come quello di Montesacro, è l’assoluta irrilevanza per la società dei malati cronici. Considerati dei pesi di cui “la comunità dei sani” dovrebbe liberarsi al più presto. Magari lasciandoli morire in una corsia di ospedale o in balia della disperazione, ma al riparo dalla vista, nella solitudine delle mura domestiche.