Che la famosa “Manovra” non generasse piaceri per tutti era scontato!
Quello che però lascia pensare è il gap fra il grado di accettazione sociale delle misure e l’ingenua coralità delle invocazioni a favore degli interventi, definiti da tutti necessari ed urgenti.
Sgombriamo subito il campo dai giudizi di merito: è praticamente impossibile trovare una filosofia di fondo nella Manovra diversa da quella taglio qui, tasso là, con approcci in parte patrimoniali (che cosa sono le tasse sui SUV e sui depositi titoli se non frammenti di una tanto denigrata tassa patrimoniale?), talora con sommari criteri perequativi (de-indicizzazione delle pensioni superiori al minimo), raramente con improvvisate pulsioni riorganizzative (dissoluzione dell’ICE), molto blandamente con finalità liberalizzatrici (vendita dei biscotti e delle caramelle da parte dei benzinai, aperture dei negozi nelle città d’arte, etc), talaltra volta con evidenti tracce di pregiudizio e di populismo propagandista (assenteismo degli impiegati pubblici, etc).
Ha ragione il prof Monti nel definire questa manovra la “battaglia del numeratore” (Deficit pubblico e Debito Pubblico sono infatti i numeratori dei rapporti Deficit/PIL e Debito Pubblico/PIL); una “battaglia” che il ministro Tremonti ha condotto, direi vittoriosamente, in questi giorni confusi per tutelare quella tenuta del bilancio dello Stato che è il presupposto della nostra sopravvivenza finanziaria.
Come ho detto altre volte, al Ministro dell’Economia va riconosciuto il merito di aver tenuto dritta la barra su questa linea che solo politici in malafede o incompetenti possono far finta di non capire o addirittura non capiscono. Grande merito, devo dire, alla luce delle scomposte chiacchiere di molti suoi irresponsabili colleghi della spesa. Si può obbiettare che il grafico dei tagli annuali da qui al 2014 è fortemente inclinato verso gli anni a venire: tagli e taglietti sì, ora (per 1,5 €miliardi nel 2011, 5,5 nel 2012) ma i tagliotti (20 e 20 in ciascuno degli anni) nel 2013 e nel 2014, cioè nella prossima legislatura; si risponderebbe che l’economia ora non sembra poter sopportare di più. Ma ora non voglio soffermarmi su questa diatriba.
E, ripeto, non voglio nemmeno entrare nel merito della valutazione complessiva della Manovra; fra l’altro la scoperta di una notturna gemmazione di norme di cui effettivamente potrebbe essere beneficiario il Cavaliere, non può non rendere più difficile una valutazione complessiva serena e scevra da pregiudizi.
Quello che mi preme invece mettere in evidenza è lo stupore che talora pervade i commenti di molti interessati agli effetti dei tagli e delle maggiori tassazioni (a proposito: altro che riduzione delle tasse!)
I tagli, cari signori, sono tagli e, come tali, dolorosi! Il fatto è che tutti li immaginiamo lontani da noi, tutti li pensiamo come un’innocua cura dimagrante, senza pensare che molti vivono e crescono le loro famiglie grazie a quel grasso che si vorrebbe e si dovrebbe tagliare!
E’ la dolorosa condizione di questo Paese (come lo sarebbe di ogni altro con gli stessi problemi): ha bisogno di tagliare ma non sa dove farlo con minor danno.
E allora?
I tagli sono solo dolori se restano solo tagli; bisogna trasformarli in potature, che sono tagli benefici perché la linfa sale più vigorosa dalle radici (quella “battaglia del denominatore” che è largamente mancata alla manovra, anche laddove sarebbe stata possibile a costi assai ridotti) e perché le foglie vengono eliminate a vantaggio dei fiori e quindi dei frutti (questa seconda, sarebbe, nella nostra metafora agreste, quella “battaglia per l’austerità” di cui da molto tempo questo frivolo paese ha bisogno!).
Si dirà: sviluppo del PIL (“la battaglia del denominatore”) ed austerità possono mai andare d’accordo? Credo proprio di si, soprattutto se li si coniugano con una revisione degli stili di vita di noi tutti concittadini. Ma qui il discorso, come sempre accade, si fa sociologico e culturale e sarebbe troppo lungo svolgerlo qui. Altrove abbiamo riflettuto su qualche misura ipotizzabile una volta che fosse veramente interiorizzato nel Paese il senso dell’urgenza, della necessità, del duro lavoro e della responsabilità intergenerazionale. Ma ci vorrebbe uno sforzo forte e anche prolungato, che minerebbe al cuore l’autorappresentazione che abbiamo costruito in questi anni. E chi potrebbe guidarlo?