L’ISIS ha decapitato un altro ostaggio.
C’è bisogno di dire che è stato commesso un ennesimo orrore? C’è bisogno di condannare, esecrare, indignarsi, prendere le distanze?
Serve a qualcosa oltre a consentire alla nostra paura e alla nostra inquietudine di manifestarsi?
Non dimentichiamo che si tratta solo di un fotogramma: il film è lungo e complesso e per una scena che vediamo ce ne sono molte altre -ugualmente atroci- che non ci vengono mostrate e di cui non sappiamo nulla.
Ogni volta abbiamo la tentazione di affermare che l’orrore è ormai arrivato a livelli mai raggiunti prima, ma è solo un tentativo di esorcizzare la paura. Sappiamo benissimo che non è vero.
Forse le atrocità delle due guerre del secolo scorso erano giochi da educande? I morti contati a milioni erano forse meno morti perché non li mettevano su internet? È sufficiente la lettura a posteriori della storia per derubricare le vittime del bombardamento di Dresda a danni collaterali? Il giapponese decapitato ieri dall’ISIS era meno giapponese dei centomila di Nagasaki?
Ciascuna parte che combatte la sua guerra è convinta di essere a servizio della ragione e di una giusta causa, per quanto assurdo questo possa sembrare a chi sta dalla parte opposta.
Gridiamo che l’orrore delle bambine imbottite di esplosivo e mandate ad esplodere da Boko Haram nei mercati nigeriani non si era mai visto… e i bambini tedeschi schierati contro i russi nella battaglia di Berlino? e le migliaia di bambini soldato nella Sierra Leone negli anni ’90? I bambini sono sempre bambini, diciamo noi cresciuti a “piccole vedette lombarde” e a “tamburini sardi” che però –ovviamente- nel libro di De Amicis erano eroi…
Quando, nel 1929, Erich Maria Remarque descrisse la sua terribile esperienza nella prima guerra mondiale, la intitolò “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. E già, purtroppo non c’è niente di così nuovo. Cambia solo la velocità e la spettacolarità con cui sappiamo alcune cose (solo alcune) e quella, conseguente, con cui ci affrettiamo a costruire le nostre “certezze” dentro cui arroccarci.
E allora? Ci sono alternative?
Papa Francesco a Strasburgo, lo scorso 25 novembre, parlando addirittura dell’ISIS, affermava: “Io non do mai per perso nulla. Forse non si può avere un dialogo, ma non chiudo mai una porta. È difficile, si può dire quasi impossibile, ma la porta è sempre aperta” e il 10 gennaio, pochi giorni dopo i fatti di Parigi, ribadiva “la tragica strage nasce da una cultura che rigetta l’altro, recide i legami più intimi e veri, finendo per sciogliere e disgregare tutta quanta la società e per generare violenza e morte“. Dialogo e ricerca di valori condivisibili: sembra quasi la pozione della nonna proposta come rimedio per una malattia grave. Sarà così, ma non mi sembra che “farmaci” più evoluti sortiscano effetti miracolosi!