Da sempre uno dei crucci del giornalista di cronaca, al di là dell’indiscutibile sforzo di adesione alla verità dei fatti, è quello di dover “vendere il pezzo”. Brutta espressione, aspirazione in fondo legittima. Tanto più in un momento in cui, sommersi come siamo da un flusso continuo di informazioni, diventa fondamentale riuscire ad attirare l’attenzione – sempre più distratta – di un potenziale lettore/ascoltatore. Di qui la rincorsa dei giornalisti a compiacere o vellicare il gusto dei propri interlocutori, attraverso scelte stilistiche che il nostro Felice Celato definisce come il “percorso del politically correct” e quello del “Naderismo vagamente populista” (http://felicecelato.blogspot.it/) .
In poche parole, spesso si finisce per raccontare la realtà banalizzandola all’estremo. Il naufragio della Costa Concordia suscita nell’opinione pubblica sdegno e commozione? Al via quindi il filone dei disastri marittimi, con cui insaporire i tg di prima serata e i rotocalchi per un mese buono dopo la sciagura dell’isola del Giglio. Scompare nel nulla una povera ragazzina nella provincia di Taranto? Tutti pronti con i plastici della cantina di zio Michele e con i racconti di mille storie analoghe o presunte tali.
Si suicidano 32 imprenditori dall’inizio dell’anno per ragioni legate alle indiscusse difficoltà economiche in cui versa il nostro Paese? E allora parliamo quasi ogni giorno di suicidi e gesti inconsulti dovuti alla crisi, dando così anche la stura a quei populisti che – non senza calcolo – hanno addebitato con parole truci al governo da poco in carica le responsabilità di un Paese che non cresce da anni.
Però. Se nel caso della nave della Costa Crociere ci si avventura, al di là dell’effettiva tragedia delle morti accadute, quasi in un genere letterario (quello dei grandi disastri provocati dall’uomo: dal Titanic allo Zeppelin, al Concorde in giù), per i suicidi ricondotti alla crisi la creazione di un tòpos giornalistico ha forse ragioni più profonde.
Nelle redazioni dei giornali, i caporedattori navigati insegnavano un tempo che sono due soprattutto i motivi capaci di indurre il lettore a posare gli occhi su un articolo: contiguità geografica con i protagonisti del fatto narrato (è la ragione per cui leggiamo con preoccupazione le notizie sull’aumento degli episodi di violenza a Roma negli ultimi mesi) o vicinanza psicologica.
Se un imprenditore si lancia dal balcone perché non riesce a far quadrare i conti della sua microimpresa o se un portiere si impicca dopo aver perso il lavoro, il lettore – che ne apprende la storia dai media – non sta tanto ad interrogarsi se il fenomeno dei suicidi legati alla crisi economica sia davvero percentualmente in aumento nell’ultimo anno. Questa potrebbe essere eventualmente una briga da statistici o da giornalisti di inchiesta.
No, il lettore si domanda piuttosto se nel suo vissuto quotidiano abbia percepito una qualche eco di questa difficoltà a sbarcare il lunario. E siccome a Roma nell’ultimo anno sono stati bruciati 21.000 posti di lavoro solo nel settore del commercio e dei servizi (secondo stime Confcommercio) e la bolletta dell’elettricità diventa sempre più cara, probabilmente, dinanzi all’ennesima vicenda narrata di italiani colpiti dalla crisi, lo stesso lettore crollerà la testa amareggiato. E si sentirà forse, una volta chiuso il giornale, meno solo (o anche meno sfortunato, in virtù di un inconfessabile pensiero improntato all’odioso detto “mal comune mezzo gaudio”).
Di chi è la colpa? Dell’egoismo umano, certamente, e della aspirazione di qualche giornalista a farsi pubblicare a tutti i costi il pezzo. Ma un po’ anche dei tempi, che sono quelli che sono, nonostante i tanti uomini e donne di buona volontà impegnati ogni giorno, magari nel silenzio, nell’impresa di costruire un Paese migliore.