Scrive Michele Serra, nella sua rubrica quotidiana L’AMACA su La Repubblica:
«Essere soli contro tutti non è una colpa, ma non è neanche un merito: né nella vita, né in politica. Purtroppo tra i No Tav c’è una frangia (molto visibile, molto rumorosa) che di questa solitudine si fa un vanto, ne è gratificata ed eccitata. E nei comportamenti, negli slogan, nei gesti fa di tutto perché questa solitudine si accentui, perché la lotta è tanto più “eroica” quanto più disperata. L’estremismo è, prima di tutto, narcisismo allo stato puro.
Peccato, perché l’impressione è che la posta in palio non sia un cantiere in Val di Susa, ma la possibilità di un’altra maniera di fare economia e di fare società. Naturalmente, è possibile che questa”altra maniera” non sia nel novero delle cose che accadono: lo sostengono in molti, anche a sinistra. Dicono che questo è il mercato, questa l’economia, questo lo stato delle cose, e il resto è solo una perdita di tempo. Da rimuovere con le ruspe. Ma se l’altra maniera fosse invece plausibile, e radicata nella realtà di una società che cambia e ci chiede di cambiare: allora l’isolamento dei No Tav è un serio problema per tutta la sinistra. Che non spera più in niente di nuovo, non concepisce più niente di differente, e lascia a pochi tangheri la scena (sterminata, ma vuota) dell’alternativa».
Mi sono permesso di evidenziare in grassetto ciò che più mi urge. Anche se ancora vado cercando e approfondendo i motivi di pro e dei contro, mi appare ormai chiaro che il problema dei No-Tav non è un problema locale e nemmeno un problema “settoriale” o “parziale” che si voglia. E’ in gioco il tipo di società che si vuol costruire e, in questo progetto, il ruolo che deve avere la popolazione. In particolare, si vuole una società totalmente soggetta alle ragioni del mercato che non trova altra legittimazione che se stesso, mercato che, per dirla con le parole di Karl Polanyi “avanza sulla desertificazione della società stessa”; oppure una società “ALTRA” in cui il mercato viene ricondotto alle ragioni della convivenza e del “Bene-essere”, più che del volgare “benessere”? E in questo progetto i popoli che cosa ci stanno a fare? Le cariatidi forzate di un potere che li schiavizza, li sposta come birilli, li sfrutta e li spreme come limoni, o hanno, essi sì e più che coloro che dovrebbero rappresentarli, parola decisiva?
Che razza di democrazia è quella in cui il tanto invocato popolo è comprato, venduto e scambiato, anche nel suo voto di rappresentanza politica, per farne poi l’opposto di ciò che esso chiede? Che democrazia è quella nella quale i referendum stessi vengono puntualmente, con mille furbizie tecnico-burocratiche, disattesi? Soprattutto che democrazia è quella nella quale una popolazione non può dire neppure “A” sull’uso del territorio in cui vive?
Contro questa dittatura che imbavaglia il popolo, lo combatte mentre se ne fa scudo, non resta altro che la ribellione!