“Lei non è del castello, lei non è del paese, lei non è nulla. Eppure anche lei è qualcosa, sventuratamente, è un forestiero, uno che è sempre di troppo e sempre fra i piedi, uno che vi procura un sacco di grattacapi, che non si sa quali intenzioni abbia”.
A molti le parole di Franz Kafka risuoneranno preoccupantemente familiari, in un’epoca in cui troppo spesso persone straniere sono indifferentemente chiamate “clandestini, extracomunitari, profughi?”.
Individui che non hanno commesso alcun reato, giudicati colpevoli di aver varcato dei confini, di cercare una vita migliore nella vecchia e opulenta Europa, di provare a garantire un futuro dignitoso a se stessi e alle loro famiglie. Privi di documenti non risultano cittadini di alcun paese e rinchiusi in centri inaccessibili a chiunque, finiscono per scomparire in un buco nero.
Sono gli ospiti dei Centri di Permanenza Temporanea (cpt). Così si chiamano quelle aree, istituite nel 1998 dalla legge Turco-Napolitano e successivamente confermate dalla legge Bossi-Fini, in cui vengono rinchiusi gli immigrati senza regolare permesso di soggiorno, prima del loro rimpatrio.
In Italia ce ne sono 11, più 5 strutture di carattere per così dire “ibrido”, deputate al raccoglimento e all’identificazione di persone straniere che fanno richiesta di asilo politico in Italia.
I centri accolgono, per un periodo massimo di 60 giorni, uomini e donne, il cui destino è quello di essere espulsi dall’Italia.
Poiché l’espulsione può avvenire soltanto in seguito all’identificazione del cittadino straniero e l’organizzazione del rimpatrio, c’è un lasso di tempo in cui queste persone, non potendo essere lasciate libere, vengono rinchiuse in un cpt.
Qui vivono un periodo di vero e proprio isolamento: non possono avere contatti con l’esterno, né muoversi liberamente; gli spazi a disposizione sono pochi e stretti e le condizioni igienico – sanitarie del tutto insufficienti (fonte: Rapporto Medici senza Frontiere, 26 gennaio 2004).
Il dato più allarmante è che le persone che vengono costrette a vivere in questi centri non hanno commesso alcun reato, ma solo un illecito amministrativo.
In Italia, come in tutte le democrazie avanzate, si ricorre alla pena detentiva solo nel caso in cui un tribunale abbia accertato la colpevolezza penale di un individuo, ossia quando risulti da prove certe che l’imputato in un regolare processo, sia l’autore di un crimine.
Tale principio generale, sancito dalla Costituzione italiana, sembrerebbe subire delle deroghe significative quando si parla di persone straniere che hanno la sventura di non possedere un regolare permesso di soggiorno, bene assai raro e di difficile ottenimento di questi tempi in Italia.