Le parole servono a dare corpo alle idee, a definirne il contenuto, a scambiarle con gli altri così da dare vita ad altre idee più complesse e complete. Le parole e le idee sono intimamente legate in un rapporto generativo reciproco: le idee generano le parole che a loro volta consentono di generare altre idee.

Non è una novità -nella storia- che quando un governo non gradisce alcune idee, non potendo cancellarle dalla mente delle persone, provi a cancellare le parole che le esprimono e le veicolano; nella convinzione che a forza di cambiare l’etichetta della bottiglia il vino diventi acqua o l’acqua diventi vino.

Non ci è difficile immaginare un feudatario medievale che, irritato -ad esempio- da chi critica le sue spese folli e preoccupato per le possibili rivolte a causa delle tasse troppo alte, emani un editto vietando di utilizzare parole come “spreco” o “sanguisuga”; ma dovrebbe sembrare a tutti stupido (prima ancora che inammissibile) che, al tempo di internet e dei social media planetari, un presidente megalomane possa credere che, vietando ai suoi uffici di utilizzare parole come immigrazione, uguaglianza, identità, inclusione, diversità, disabilità, orientamento, razzismo, discriminazione, marginalità […ed altre 190!], le diversità (oh, scusate, questa è una delle parole proibite!) di opinione scompaiano magicamente e finiscano -col tempo- per essere dimenticate.

Dovrebbe bastare il ridicolo ad affossare una idea così assurda, eppure Trump lo ha fatto. Come riportato dal New York Times (QUI) e poi ripreso dalla stampa statunitense e internazionale, la nuova amministrazione USA ha richiesto a tutti gli uffici federali di non utilizzare duecento specifiche parole in tutte le comunicazioni ufficiali.

La misura censoria è stata spacciata come una reazione alla cultura “woke”, estendendo però l’accezione del termine dall’originario significato di “consapevolezza dell’ingiustizia rappresentata da razzismo, disuguaglianza economica e sociale e discriminazione verso i meno protetti” (Treccani) ad altri ambiti di natura e rilevanza assai diversa (la problematica ambientale, le complesse questioni dell’ambito “gender”, il movimento “Black lives matter”, le iniziative per la tutela degli immigrati, ecc.) connotando così complessivamente il tutto in senso dispregiativo senza distinzioni.

Fanno parte dell’elenco tutti i termini indispensabili per descrivere e analizzare le dinamiche migratorie, l’inclusione sociale, il contrasto all’emarginazione, le differenze culturali, le vulnerabilità fisiche e psichiche… insomma tutte le dimensioni della vita e della società che potrebbero appannare lo splendore della “America great again” e la perfezione del trumpismo ogni giorno più simile ad una religione intollerante. Questa violenza lessicale assomiglia al goffo e infantile atteggiamento di chi -non sapendo come affrontare un problema- ne nega l’esistenza.

Le parole sono lo strumento più prezioso che abbiamo per capire il mondo in cui viviamo, capire noi stessi e capirci tra noi; tentare di sterilizzarle, vietarle o nasconderle è stupido e inefficace, ma ci dice molto della mentalità di chi ci prova.

E non è uno spettacolo edificante.