Giovanni Sartori (Corriere della Sera, 16 giugno) si chiede se il Partito Democratico nascerà vitale oppure già morto, se sarà un successo oppure un fiasco. Le sue riflessione meritano un approfondimento. In primo luogo, dice Sartori, non v’è certezza che l’unione di più partiti produca valore aggiunto, ossia conquisti più consensi della semplice sommatoria degli elettori dei due o più partiti originari. Anzi, quasi sempre è accaduto il contrario. Del resto, se il sistema elettorale premia i particolarismi, quel che divide, oltre ad avere legittima dignità, finisce con l’avere un peso maggiore di quel che unisce. Il sistema attuale sprona quindi a spezzettarsi, più che a compattarsi. Premia i piccoli partiti, li fa assurgere ad “ago della bilancia”, condiziona le coalizioni. Si tratta, mi sembra, di un indimenticabile deja vu della cosiddetta Prima Repubblica che, ben lontano dall’esprimere la complessità e ricchezza della società, alimenta – per contrappasso – una sterile autoreferenzialità. Costruita sulla conquista e occupazione del potere, tradotto in prebende, opportunità, rete di mutuo sostegno, soprattutto per perpetuare tale occupazione.

In secondo luogo – per me ancora più importante – è indispensabile, aggiunge Sartori, che “il nuovo partito sia percepito come davvero nuovo”. Io toglierei quel “percepito come” ed enfatizzerei quel che più avanti reclama sempre Sartori, ossia che sia “portatore di aria fresca ed energie giovani”.

Sartori né fa principalmente una questione di tattica e di architettura progettuale, accusando Prodi di impastoiarsi in complicazioni procedurali che dimostrano, alla fine dei salmi, come questo partito non nasca davvero “dal basso”, come si vorrebbe far credere. E sarebbe auspicabile.

Vorrei aggiungere una digressione. Quella alla quale finora abbiamo assistito non è neppure la riedizione di un processo storico ben conosciuto che vuole le elites, avanguardie che propugnano idee forti e difficili, catalizzare consensi e coagulare intorno a sé energie nuove, che acquistano coscienza fino a desiderare di incidere nei processi politici e fare, esse stesse, la storia.

Manca lo slancio ideale. I funerali di fine millennio alle ideologie del Novecento avrebbero dovuto preludere al battesimo di forti idealità. Se in parte questo sta accadendo nella società civile, con il fiorire di iniziative socio-umanitarie, di associazioni dedite alla cooperazione per lo sviluppo, di cenacoli, girotondi, forum, occasioni di pubblico incontro e confronto, fosse solo per ascoltare buona musica o un reading di poesie, gli attuali partiti – e purtroppo anche il nascituro PD – sono ben lontani da interpretarne e svilupparne le potenzialità.

Dovremmo cominciare a parlare un po’ meno di tattiche e di procedure, e un po’ di più di contenuti, di idee, aspirazioni, valori comuni, obiettivi. Dovremmo occuparci dei bisogni e dei sogni. Dovremmo alimentarli, questi sogni. Con l’inedita consapevolezza – dopo le mostruosità del Novecento – che il paradiso non è di questa terra. Ma che un mondo migliore è possibile.

Sì, c’è proprio bisogno di aria fresca.